La pubblicità delle moto: dal machismo di un tempo al politicamente corretto

La pubblicità delle moto: dal machismo di un tempo al politicamente corretto

La malizia è negli occhi di chi guarda o noi motociclisti abbiamo peccato di machismo? Come sempre la verità sta nel mezzo. La motocicletta è libertà, questo la salverà da ogni accusa

Nicolò Bertaccini

19.09.2022 11:07

La malizia è negli occhi di chi guarda?

E' stata persa un'occasione per sedimentare certi valori. L'espressione liberatutti “la malizia è negli occhi di chi guarda” (forse di Michelangelo Buonarroti) ha permesso campagne pubblicitarie di cui avremmo dovuto vergognarci, invece che portarci a fare gretti commenti da caserma. L'evoluzione ha fallito, direbbe qualcuno. Il risultato è il mostro del politically correct, dove non è più permesso nulla. Dove chi se ne frega delle pubblicità e della comunicazione sessista non percepisce il problema e chi se ne frega si sente, appunto, come un artificiere che deve sminare un campo.

C'è stato un momento in cui la comunicazione si è impoverita e si sono tolte strisce di stoffa dalle modelle, perché un nudo porta comunque risultati e la campagna è un successo. Ci si spingeva sempre oltre, ci sono stati alcuni decenni in cui l'uomo non doveva chiedere mai e in cui la moto era per l'uomo. Era uno strumento maschile, come il rasoio elettrico, il dopobarba, la cravatta e le sigarette. Dopo aver osato campagne in cui donne alla guida di motociclette sfrecciavano vicino a uomini intenti a fare l'autostop, siamo finiti a trasformare la moto in un mezzo da invidia del pene, solo per uomini, prettamente maschile e machista.

Adesso il mondo è cambiato e siamo diventati schiavi dei limiti, limiti che abbiamo accettato come espiazione di quanto fatto nel passato. E così ci troviamo a chinare la testa colpevoli davanti a situazioni quasi grottesche. Un esempio in cui sono stato direttamente coinvolto, l'uso del termine "zavorrina". Un termine come "zavorrina" non si può più dire, perché squalifica il ruolo di passeggera. Perché chi siede dietro di noi ha un ruolo attivo, partecipe alla guida che stona con l'accezione di zavorra: statica e poco incline a reagire proattivamente. Perché per alcuni assimila la donna a qualcosa da trasportare, silente ed immobile, a malapena consenziente ad un giro in moto.

Il problema è che noi lo sappiamo che un passeggero può togliere il 50% della fatica se collabora alla guida, forse chi si è accanito contro il termine zavorrina no. Per quel che mi riguarda il termine zavorrina ha sempre indicato un passeggero capace di stare in moto. Chi sale in moto e non “collabora” alla guida è, appunto, un passeggero. Per me "zavorrina" era un termine che suonava bene e che qualificava, indicava qualcuno appassionato e partecipe, non semplice spettatore o paziente accettatore del divertimento altrui.

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