Dovrei essere più preciso e chiamarlo Cina. Dal 1950 infatti il Tibet non è più uno stato sovrano e indipendente, ma una regione sotto l’egemonia della Repubblica Popolare Cinese.
Raggiungere il Tibet è un’impresa tutt’altro che semplice; le difficoltà per accedervi vengono ulteriormente amplificate dalla complessità di noleggiare una moto e ottenere la patente per guidarla in territorio cinese. La burocrazia e le restrizioni possono rendere questo sogno un vero e proprio ostacolo, richiedendo non solo pazienza, ma anche una pianificazione meticolosa. Andiamo per tappe. Mi reco all’ufficio visti per la Cina, dove esprimo il desiderio di visitare Lhasa e il Tibet per motivi turistici. Scopro presto che viaggiare in autonomia è molto complicato. Senza legami familiari, motivi di affari o autorizzazioni speciali, il rilascio del visto potrebbe essere negato o, nel migliore dei casi, ritardato.
Ho solo 15 giorni a disposizione per ottenerlo e dichiaro di fare un giro nella regione del Sichuan, anche se in realtà il mio obiettivo è raggiungere la tanto agognata Lhasa.
Grazie a un’agenzia di noleggio moto trovata online, riesco a ottenere l’invito necessario per il Tibet, che riceverò “brevi manu” fuori dall’aeroporto. Finalmente posso acquistare il volo. La partenza è imminente e l’emozione cresce!
Arrivato all’aeroporto internazionale di Chengdu, la capitale del Sichuan, perdo la coincidenza con il volo per Lhasa a causa delle lunghe attese al controllo passaporti. Ritiro il bagaglio e, una volta uscito dall’aeroporto, mi viene consegnato l’invito per il Tibet.
È un momento decisivo!
Riprogrammo il volo successivo, che per fortuna è imminente, ma mi attende un nuovo check-in e naturalmente, un nuovo imbarco del bagaglio. Non mi dilungo sui dettagli dei vari controlli, ma posso dire che la tensione è palpabile. Con un colpo di fortuna, raggiungo il gate “per un pelo”.
La mia avventura verso il Tibet è iniziata!
Sono le tre del pomeriggio quando finalmente metto piede a Lhasa. Circondato da imponenti montagne e avvolto da un’aria frizzantina sono pervaso da una piacevole leggerezza d’animo, ma un imprevisto smonta l’euforia. Non c’è un’agenzia di pratiche auto, ma la Motorizzazione Civile.
Un ufficiale in divisa completo di copricapo marziale con tanto di stella rossa inizia a farmi domande e l’esame si trasforma in un interrogatorio: “Perché sei venuto da così lontano? Perché una moto? Quanta esperienza hai?”.
Le mie risposte, supportate da foto con varie moto in tutto il mondo, sembrano soddisfarlo. Patente ottenuta! Scopro di essere l’unico occidentale a noleggiare una moto da anni e l’unico italiano a Lhasa. Ora posso esplorare la Cina per i prossimi tre mesi (magari!).
Con il passare dei minuti cresce la curiosità per questa città, non vedo l’ora di tuffarmi tra le viuzze più antiche e caratteristiche di Lhasa, ma soprattutto di ammirare l’imponente Potala, sede dell’ultimo Dalai Lama prima del suo esilio in India.
Questa città è situata a 3650 m di altitudine, sono passate 4 ore dal mio arrivo e di minuto in minuto sta crescendo anche un mal di testa che rovina il mio battesimo nella patria del buddismo.
Memore dell’esperienza vissuta in Ladakh (vedi InMoto n. 5/2018), in cui fin dal primo giorno mi misi in sella ad una Royal Enfield valicando passi a 5000 metri di altitudine, per poi pagare nei giorni successivi il mancato ambientamento, questa volta decido di stazionare per tre giorni prima di mettermi in marcia.
Lhasa offre veramente molto agli occhi di un occidentale, protetta da una cintura di montagne che sfiorano i 6000 metri ed edificata ai piedi del Potala, questa città da un lato diffonde ancora l’eco della sua storia, dall’altro, essendo completamente militarizzata, con i check-point, le telecamere, e i militari che sono più numerosi degli abitanti, trasmette attraverso gli occhi del suo popolo il triste velo di oppressione di cui è ammantata.
Il popolo tibetano è un popolo molto rispettoso di ogni forma di vita, la loro filosofia si fonda anche sul rispetto della natura e di tutti gli esseri viventi per una vita di coesione e armonia.
È consigliabile rispettare alcune semplici norme comportamentali per non suscitare fastidio, ad esempio fumare o bere alcolici, ridere sguaiatamente, passeggiare in pantaloni corti, dimostrare eccessivo affetto in pubblico.
È un popolo mite e silenzioso che conduce una esistenza modesta e allo stesso tempo dignitosa. Il loro credo è la reincarnazione, per cui il corpo è solo un contenitore vuoto custode dell’anima la quale si reincarnerà in altri cicli vitali assumendo forme di vita diverse.
In questi giorni ho potuto ammirare due tra i più importanti monasteri del Tibet, tra cui il Sera Monastery e il Drepung Monastery da cui proviene anche l’ultimo Dalai Lama.
Osservare giovani e vecchi monaci pregare, meditare, o semplicemente spazzare il piazzale antistante il tempio in un moto perpetuo che scandisce ogni giorno della loro vita riempie la mia mente di domande. Quella dei monaci è una vita di rinunce, se la giudichiamo con il nostro metro, non lo è se proviamo ad immedesimarci nel loro pensiero. Spesso provengono da famiglie povere o molto numerose, la vita monastica apre la mente alla spiritualità, allontanando la materialità e il raggiungimento del successo.
Per quanto ancora potranno resistere queste “menti ingenue” e morbide come il burro di yak contro le affilate lame della comunicazione di massa, dei social media e del consumismo dilagante anche in Asia?
Visitare il Tibet in completa autonomia è impossibile, avere una guida è obbligatorio, per motivi politici e soprattutto perché nessuno parla inglese, a meno che non abbia una formazione universitaria. Inoltre, le indicazioni stradali sono scritte in caratteri incomprensibili per noi occidentali e agli stranieri non è previsto il rilascio di una SIM. Tashi è un uomo di 40 anni, serio e professionale, percepisce i miei desideri e riconosce la mia esperienza e dopo aver fatto il pieno di benzina – dove devo mostrare ogni volta passaporto, patente, invito e libretto della moto – mi lascia procedere in autonomia.
Il nostro rapporto si basa sull’empatia e cresce di ora in ora la stima reciproca; ci incontriamo solo a cena oppure all’ingresso di monasteri o in attesa ai check-point.
Il tragitto di questo primo giorno prevede il valico di due passi: il primo Khama La (4800 m) e il secondo il Karo La (5040 m). Sbagliare strada è quasi impossibile, tuttavia durante il transito nei centri abitati può capitare, ma una volta lontano da essi, la carreggiata è deserta e puoi distrarti ammirando il panorama.
Spesso l’itinerario segue il corso di un fiume o di un lago, per poi salire fino all’infinito, perdersi tra tornanti, nuvole, cielo azzurro e vette innevate. Il Karo La è un passo a 5.040 m di altitudine, ai piedi del ghiacciaio omonimo. Sta nevicando, fortunatamente il fenomeno è circoscritto alla zona del valico. Umido e intirizzito arrivo a Gyangze, ad accogliermi la fortezza di Dzong, la più integra tra le cittadelle fortificate del Tibet.
Ho dimenticato imperdonabilmente di menzionare la vera protagonista, colei che mi porterà in sella per questi giorni sfidando salite, discese e curve a gomito: una BMW GS 750 super accessoriata con valigie laterali, bauletto, fendinebbia, navigatore, GPS e, udite udite, microtelecamere anteriori e posteriori con registrazione video in caso di incidente.
Ogni mattina Tashi benedice la mia moto con alcune gocce d’acqua.
Lui ha un passato spirituale, è l’ultimo di tanti fratelli e i genitori piuttosto anziani, decisero di mandarlo in una scuola buddista. Venne inviato in India, precisamente a Dharamsala, la residenza dell’ultimo Dalai Lama dopo il suo esilio. Per 16 anni, Tashi ha praticato la vita monastica e, nonostante il suo percorso di vita lo abbia fatto diventare laico, con moglie e due figli, la sua fede ha le stesse profonde radici di un tempo.
La conoscenza della lingua inglese e alcune abitudini occidentali apprese in India gli hanno dato la possibilità di lavorare come guida per turisti.
Come ogni mattina fino alla fine del tour visiteremo un monastero, quest’oggi il magnifico Pelchor Chode con il suo stupa anche chiamato kum-bum, decoratissimo con più di 10.000 pitture murali e 70 cappelle.
Questi luoghi di culto ti mettono pace, ti fanno stare bene con te stesso: forse il silenzio, forse gli sguardi profondi dei fedeli, i mantra dei monaci, perfino gli avvoltoi con i loro volteggi concentrici diffondono un senso di serenità. Il tratto finale della tappa odierna comporta un paio di check-point e due valichi oltre i 5000 m, da adesso in poi ci si addentra nel Tibet più remoto che culmina con Sakya, questo villaggio prende il nome dall’omonimo monastero millenario, che avrò modo di visitare domattina.
L’energia elettrica nei piccoli villaggi viene interrotta dopo le 20, ma l’unico ristorante del paese utilizza un generatore per illuminare gli interni, permettendomi di ricaricare la mia attrezzatura fotografica e il cellulare. La cucina tibetana è deliziosa: la thupka, una zuppa con carne o noodles accompagnate da verdure, è particolarmente gustosa. I momo, ravioli ripieni di carne di yak, hanno un sapore simile al manzo e sono sempre piccanti e bollenti. Il pane, una palla di mollica pressata, viene spezzato e immerso nella zuppa, mentre il tè è immancabile ad ogni pasto.
Gli ambienti, piccoli e spesso poco luminosi, sono colorati ma sobri, richiamano lo stile dei monasteri; in ogni caso sempre puliti e dignitosi. Finora, tutto è stato di mio gradimento.
Il monastero di Sakya, edificato nel 1073 d.C., è uno dei più significativi
della regione. All’interno, quattro statue di Buddha celano una parete alta 10 metri e lunga 60, in cui sono stipati migliaia di testi sacri e scritti filosofici che raccontano la storia buddista. Questa straordinaria biblioteca è rimasta nascosta alle autorità cinesi per oltre 50 anni ed è stata resa pubblica solo dopo il 2006.
È importante rispettare il senso orario quando si visita un monastero in Tibet. L’atmosfera è avvolgente: il mantra dei monaci, l’odore del burro di yak e l’incenso creano un ambiente rilassante, mi accomodo sui cuscini tra le colonne dorate cariche di vorticosi ghirigori, lasciandomi trasportare in uno stato di beatitudine.
L’estasi dura poco, devo rimettermi in marcia, la mia meta è il campo base dell’Everest, la vera ciliegina sulla torta del mio viaggio.
Le nuvole dominano il cielo, saranno loro a decidere se permettermi di ammirare la vetta della montagna più alta del mondo.
Seguendo la mitica highway 318 – la strada che attraversa tutta la Cina in senso longitudinale – attraverso vari check-point, mi viene permesso di entrare nella zona militarizzata al confine con il Nepal. Man mano che avanzo, la catena himalayana si svela, offrendo una vista mozzafiato: 200 km di cime innevate, tra cui l’Everest (8844 m), il Lhotse (8516 m), il Makalu (8462 m).
Proprio mentre affronto l’ultima ripidissima discesa, un violento nubifragio si abbatte su di me. Le gocce di pioggia, spinte dal vento, arrivano come proiettili. Nonostante la temperatura di circa 5 gradi e il casco bagnato, sono carico di energia. Passerò la notte ai piedi del Qomolangma, il nome tibetano dell’Everest.
A differenza del Nepal, i cinesi non consentono di scalare l’Everest o di affrontare trekking; sei rigorosamente controllato e puoi solo raggiungere un belvedere. Di fronte a me, la montagna si erge maestosa, con 4 km di roccia e ghiaccio. Anche se posso ammirarla solo per pochi minuti per via delle nuvole, sono profondamente commosso dalla sua bellezza.
Mi aspettavo un’atmosfera silenziosa, dí contemplazione e di ammirazione in un luogo in cui a dominare dovrebbero essere i suoni del vento e i versi dei rapaci. Purtroppo, l’accampamento ospita quasi mille turisti cinesi, intenti a scattare selfie, urlare, festeggiare e sparare musica inascoltabile fino a notte inoltrata che invade anche la privacy del vicino Rongbuk Monastery. Provo invano a prendere sonno.
Mi sveglio all’alba, desideroso di ammirare la luce rosacea crescere di intensità sulle pareti di roccia, purtroppo le nuvole basse mi impediscono di vedere la cima. Riempio una bottiglietta di plastica con quest’aria purissima. (Vi spiegherò il perché alla fine del mio racconto)
Rimonto in sella, stanco della notte insonne disgustato e saturato dalla maleducazione cerco di trovare la concentrazione per affrontare i 350 km e i tre passi oltre i 5000 metri che mi separano da Shigatse, la seconda città del Tibet per numero di abitanti. La giornata non ha deluso le attese, il tragitto è stato lungo e faticoso, ora il primo pensiero è trovare un ristorante perché ho bisogno di ricaricare le energie. Consumo un pasto veloce e mi ritiro nella mia stanza: la bellezza del Tibet non mi abbandona, e sono determinato a godere ogni attimo di questo straordinario viaggio.
Parto di buon mattino, con un grande entusiasmo per la giornata che mi aspetta. La prima tappa è il Tashilumpo Monastery, dove giace la tomba del quarto Panchen Lama. Qui, tra Buddha dorati, pietre preziose e gioielli scintillanti, mi sento trasportato in un mondo di fasto e spiritualità, forse il monastero più sontuoso che abbia visitato finora.
Dopo aver percorso circa 80 km, raggiungo un altro importante monastero: il Rela Yongzholinglin Monastery. Attorno alla mia moto, una piccola folla di turisti cinesi si raduna per scattare dei selfie con me. (Questa scena si ripeterà più volte durante il mio viaggio, un mix di curiosità e protagonismo).
Rimonto in sella, pronto ad affrontare il Xuegupa Pass (4960 metri). La salita è una sfida, ma vale la vista è mozzafiato, poi la discesa verso una vasta spianata verdeggiante tagliata da una strada rettilinea che non è affatto monotona.
Villaggi pittoreschi, stupa maestosi e mandrie di yak pericolosi per i loro attraversamenti improvvisi rendono il paesaggio vivo e vibrante.
A 4300 metri la temperatura è rigida, un tramonto da pelle d’oca si apre di fronte a me, mentre la notte che arriva veloce copre il villaggio di Damxung con il suo mantello di stelle. È un momento magico, un perfetto epilogo per una giornata indimenticabile nel cuore del Tibet!
L’ultimo giorno di viaggio si annuncia ancor più rigido del precedente, con la temperatura sotto lo zero affronto il passo che mi porterà al lago più grande del Tibet, il Nam Tso.
Il panorama dal Largeh La, il passo a 5123 m, è mozzafiato, il lago visto dall’alto si presenta in tutto il suo blu intenso, un colore che puoi ammirare solo nei laghi himalayani. È immenso e circondato da vette innevate che sfiorano i 7000 metri, come il maestoso Nianqingtanggula Mountain, che si erge a 7111 metri.
Come in tutti i valichi anche qui un intreccio di bandierine colorate, sono le classiche bandierine della preghiera. Sono attaccate a delle corde e issate in modo tale da prendere sempre il vento così da essere divulgate il più lontano possibile. Queste preghiere tradotte dal sanscrito al tibetano e stampate su bandierine di colore differente hanno sempre la stessa sequenza: giallo (la terra), verde (l’acqua), rosso (il fuoco), bianco (lo spazio infinito) e blu (l’aria e il cielo).
Nel coinvolgimento emotivo ricavo del tempo per depositare la Khata – la tipica sciarpa di cotone bianca – su una roccia e dedicare una preghiera.
Ora è tempo di rientrare a Lhasa, e mentre mi preparo a partire, realizzo che, sebbene non sia stato molti giorni in sella, ho percorso circa 1800 chilometri sul tetto del mondo! Innanzitutto, i primi tre giorni sono stati interamente dedicati all’adattamento all’altitudine. Questa fase di acclimatamento è fondamentale, ma non basta: guidare una moto a queste quote elevate per circa 8 ore al giorno pesa notevolmente.
Ho affrontato oltre venti passi tutti intorno ai 5000 metri, un’impresa che mette alla prova qualsiasi motociclista. Le strade, raramente rettilinee, si rivelano un vero e proprio paradiso per chi ama la moto, ma la concentrazione richiesta per affrontare “tre passi dello Stelvio” al giorno è estenuante. A tutto ciò si aggiungono il freddo penetrante e quel fastidioso mal di testa che ti accompagna incessantemente, rendendo ogni chilometro un’avventura avvincente, ma anche logorante.
Tra i ricordi del Tibet quello più vivido è sicuramente la straordinaria bellezza dei monasteri, custodi di un’autentica spiritualità che trasmette pace e serenità. Baluardo e rifugio di meditazione attraverso i secoli per la popolazione tibetana, che con la sua resilienza, vive nell’oppressione costretta a regole rigide e privazioni di libertà. Colpisce profondamente la loro dignità e lo spirito indomito. Tuttavia, ho anche percepito un atteggiamento maleducato e supponente da parte dei cinesi che sporca quell’idea di una Cina ricca di valori che non ho potuto apprezzare e della quale spero un giorno di potermi ricredere.
Questo viaggio non è stato solo un’esperienza visiva, ma un profondo viaggio interiore, che invita a rif lettere sulle ingiustizie del mondo.
Rricordate la bottiglietta riempita al campo base dell’Everest?
Quando sono tornato a Roma, ho scoperto con sorpresa che la bottiglietta era completamente schiacciata, come se ci fosse passata sopra una macchina. Un fenomeno fisico che si spiega con i dati: a 5400 metri di altitudine la pressione è di circa 450 hPa, mentre al livello del mare supera i 1000 hPa. Questo esperimento non è solo un ricordo del mio viaggio, ma dimostra come il nostro corpo e gli oggetti reagiscano a condizioni estreme.
Le foto più belle del nostro viaggio in Tibet
L’itinerario segue il corso di un fiume o di un lago, per poi salire fino all’infinito, perdersi tra tornanti, nuvole, cielo azzurro e vette innevate
Guarda la gallery
Link copiato