Ruota anteriore sempre puntata verso il cielo, pochi freni, poca tenuta di strada, tanta cattiveria e soprannomi sinistri. Ma aveva anche dei difetti
Col senno di poi si può dire che il 1969 è iniziato all’insegna della velocità. Il due marzo di quell’anno il Concorde era decollato per la prima volta e negli stessi giorni i primi esemplari della Kawasaki 500 Mach 3, la moto più violenta che fino ad allora avesse messo le ruote sull’asfalto stradale, arrivavano nei concessionari.
In quel periodo il top del panorama motociclistico era appannaggio esclusivo delle moto a quattro tempi, che solitamente venivano definite “motopesanti” o “maximoto” e portavano perlopiù conosciuti nomi inglesi e, in qualche caso, italiani.
Fino a pochi mesi prima nessuno pensava che di lì a breve le cose sarebbero cambiate in modo radicale e irreversibile.
Nello stesso periodo in cui arrivò la Mach III, la Honda presentò la CB 750 Four: “la moto perfetta” destinata ad aprire le porte ad una nuova epoca, proponendo soluzioni ed accessori fino ad allora impensabili nel settore motociclistico.
Le doti della 500 presentata da Kawasaki non si avvicinavano nemmeno lontanamente ai lussuosi standard della CB 750, eppure la sua belligeranza e le sue prestazioni mostruose riuscirono impressionare tutti i motociclisti di allora e ad inquinare la mente della maggior parte di chi voleva una moto che andasse “over the top”.
La nuova Kawasaki era anticonformista e rappresentava la ribellione allo stato puro: leggerezza e aggressività esaltate da un motore a due tempi con tre cilindri frontemarcia, una conformazione inedita che non poteva non entusiasmare gli appassionati di moto e di meccanica.
Lo scoppiettio secco che produceva al minimo, aprendo del tutto il gas si trasformava in un sibilo straziante ed entusiasmante al tempo stesso, simile a quello di un motore a reazione.
Un rombo particolare che diventerà per la Mach III un marchio di fabbrica paragonabile a quello della Porche 911 nel settore automobilistico. Unico e inconfondibile.
Fumava più di una dozzina di turchi durante un’ora di relax, ed era meglio non starle in scia se non si voleva tornare a casa oleati come una sardina in scatola.
Gli steli della forcella erano così esili che sembravano rubati ad una 125 e il telaio, anch’esso sottodimensionato, si muoveva come un’anguilla in un sacco di iuta. Quando si viaggiava a velocità elevata la propria metà della carreggiata non sempre bastava.
I freni proposti nelle prime edizioni erano a tamburo - quello anteriore a doppia camma con un diametro di 206 mm - e riuscivano a malapena a rallentare la mandria di 60 furiosi cavalli che si lanciavano al galoppo senza la minima incertezza e senza il benché minimo freno motore.
La mezzo litro della Kawasaki superava in velocità l’ammiraglia Honda da 750 cm³ di quasi 20 Km/h ed aveva un’accelerazione al cardiopalma.
Il telaio fletteva e cercava di disarcionarti al pari di un cavallo da rodeo e partendo con il gas aperto era facile che la ruota anteriore tendesse a staccarsi da terra anche in terza.
I primi 300 esemplari importati in Italia comparvero nelle vetrine dei concessionari nella primavera del 1969, inizialmente proposti a 870 000 Lire, poi aumentati a 990 000 Lire durante l'estate.
Le prime H1 arrivarono con la livrea bianca (peacock white) con striscia blu, subito affiancate da quelle in livrea rossa e grigio scuro che, più tardi (nel 1971) verranno sostituite dall’altrettanto bella nuova grafica in azzurro metallizzato e argento (versione H1A) sviluppata su un serbatoio ora privo di incavi per le ginocchia.
Nel giro di quest’arco di tempo l’esuberanza e la cattiveria del tricilindrico 2T erano già diventane famose a livello planetario, al pari della sua difficoltà ad essere governato.
Negli USA - dove la Mach III era stata progettata sotto richiesta della Kawasaki Motor Corporation di Los Angeles (azienda importatrice esclusivista per gli Stati Uniti) – fu soprannominata “Widow Maker” ossia fabbrica di vedove, e anche da noi ebbe sopranomi altisonanti quanto sinistri, come “Bomba H” o il più diffuso “Bara Volante”.
Questo letale mix di scompensi e potenza pura – proprio soprattutto delle prime serie e in seguito ridimensionato calando la potenza e, soprattutto, potenziando i freni e intervenendo sulla disposizione dei pesi e sull’ancoraggio del forcellone – furono determinanti alla nomea del marchio Kawasaki, che da lì in poi fu sempre associato a moto di prestazioni elevate.
Grazie alla linea elegante, all’ottima finitura, alla buona maneggevolezza data dal peso contenuto e ad un accessibile prezzo d'acquisto, la H1 divenne subito un prodotto di riferimento ma, paradossalmente, fu la difficoltà di mantenere la ruota anteriore a terra nelle accelerazioni, a stabilirne un successo mondiale.
Tale effetto è (volutamente) dovuto al posizionamento molto arretrato del motore rispetto a una corretta collocazione, dislocando solo il 43% del peso sull’asse anteriore e il restante 57% su quello posteriore, scelta che determina un eccessivo alleggerimento dell'avantreno con conseguente instabilità del mezzo in accelerazione e a velocità elevate.
Il motore raffreddato ad aria ha un’aria tozza e aggressiva, impossibile da ignorare con i suoi 55 cm di larghezza da carter a carter.
L’albero motore conta su ben sei cuscinetti di banco e il gruppo termico, interamente in alluminio con canne in ghisa, è inclinato in avanti di 15°. La distribuzione è a 5 luci per cilindro, alesaggio e corsa 60x58,8x3 e rapporto di compressione di 7:1.
L’accensione elettronica CDI sostituiva le puntine presenti praticamente su tutte le grosse moto di allora, il miscelatore con pompa Injectolube si occupava di miscelare la giusta quantità di olio alla benzina a seconda dei giri motore, e le bielle avevano un ordine di scoppio a 120°.
Non c’è dubbio che la nuova moto di Kawasaki incarnasse l’era moderna.
Il cambio era a cinque marce con la folle completamente in basso e l’alimentazione affidata a tre carburatori Mikuni con diffusore da 28 mm che risultavano alquanto voraci: meno di 10 Km/l se si dava di gas, così che i 15 litri del serbatoio davano un’autonomia di poco superiore ai 130 Km.
Il peso dichiarato era di 174 Kg a secco (una cinquantina in meno della CB 750) e la potenza di 60 CV a 8.000 giri/min, in grado di spingere il missile fino alla soglia dei 200 km/h… ma per farlo non bastava il proverbiale “pelo sullo stomaco”ci volevano anche una buona dose di incoscienza e dei grossi attributi ghiacciati, e non erano compresi nel prezzo.
Di lei resterà un ricordo indelebile come la moto che ha lasciato un segno del suo passaggio e il tempo non ha fatto altro che aggiungere fascino alla sua storia famigerata.
Kawasaki Mach III 500: LE FOTO
Per lei furono coniati soprannomi sinistri come “La Bara Volante”, ma questo non fece che accrescere il suo fascino. Era un razzo, un razzo fumante con la ruota anteriore sempre puntata verso il cielo. Pochi freni, poca tenuta di strada e tanta cattiveria.
Guarda la galleryLink copiato