Certi motociclisti, quando gli si para davanti l'opportunità di spendere un intero weekend in moto insieme ad altri appassionati, dicono sì a prescindere. È un impulso che ha poco a che fare con la logica e molto con la libertà. Poco importa se il tutto si svolge con fatica e sudore sotto il sole più rovente dell'anno o con freddo e umido sotto la grandine che spacca la visiera. L'importante è che si vada, che si faccia strada, tutto il resto è secondario.
E anche quest’anno un manipolo di motociclisti con qualche rotella sgangherata ha deciso di trovarsi comunque attorno alla bandiera della 20.000 pieghe nonostante l'ondata di caldo africano che avrebbe piegato l'Italia centrale proprio nel weekend della manifestazione. E al diavolo i giornalisti che raccomandano di non uscire nelle ore più calde della giornata, qui c'era da onorare un rito collettivo che si presentava come una delle edizioni più affascinanti e intense di sempre. Un po' di disidratazione da bollino rosso si può anche mettere in conto, no?
L’itinerario di quest’anno ha avuto la forma di un fiore a tre petali, ognuno disteso su una regione diversa: Umbria, Lazio e Toscana. Un viaggio disegnato con mano d’artista dove ogni tappa ha avuto il suo ritmo, le sue sorprese e i suoi scorci da assaporare più che da guardare.
Venerdì 13 giugno, la partenza da Piazza del Popolo ha subito dettato il tono: si scendeva nel cuore dell’Umbria, tra il Lago di Corbara e quello di Piediluco, passando per Spoleto e Castelluccio di Norcia, con la piana che sembrava dipinta da Van Gogh a colpi di sole e papaveri. Poi l’ascesa verso Leonessa, con i primi tratti tecnici e le prove cronometrate che hanno messo alla prova anche i più esperti.
Sabato 14 ha portato i partecipanti in alto, verso il Monte Amiata. Dopo un avvio nel verde scuro dell’Orvietano, si è risaliti tra le curve tecniche e veloci che tagliano i colli nei dintorni di Radicofani, con la cronoscalata verso Colonnetta di Prodo come uno dei momenti più adrenalinici dell’intero evento. Il sole non ha concesso tregua per tutto il percorso, ma nessuno ha mollato il colpo: nelle pieghe strette e nei lunghi tornanti, ogni metro ha scritto un racconto degno di essere condiviso.
Domenica 15, l’ultima danza: dal Duomo di Orvieto, si è partiti per l’anello attorno al Lago di Bolsena. Un giro più dolce, ma carico di emozioni e curve bollenti. L’acqua del lago rifletteva i volti sudati e affannati, le moto respiravano con fatica in un concerto di ventole di raffreddamento. Ma il rientro in città, nel pomeriggio, ha avuto il sapore delle imprese ben riuscite.
Una sofferenza immane, questa 20k, dobbiamo ammetterlo. Una di quelle esperienze masochistiche che solo i motociclisti fino al midollo possono comprendere e apprezzare. E al di là di tutti i meravigliosi luoghi incrociati, di tutte le curve mozzafiato e dell'effettiva goduria del partecipare a una "sfida" di regolarità, c'è un luogo speciale che ha reso quest'edizione assolutamente indimenticabile e unica: il baretto di Piazza del Popolo a Orvieto, punto d'arrivo di ogni tappa. In modo del tutto naturale e quasi sacro, questo angolino è diventato il santuario di momenti rari e preziosi, in cui tutta quella fatica si è sciolta in un sorso di birra ghiacciata sotto l'ombra generosa di un ombrellone, tra amici che fino a qualche ora prima non si conoscevano nemmeno.
Così è stato ogni pomeriggio della 20.000 Pieghe 2025, con i motociclisti che tornavano, uno a uno, alla base e come un rituale obbligatorio. Il punto d'approdo era sempre lo stesso, con i tavolini roventi e le sedie di plastica che sembravano liquefarsi sotto il sole di giugno. Non era solo il luogo dove rifocillarsi dopo le fatiche dell'itinerario del giorno, ma il tempio laico dove si è celebrato il rito della fatica condivisa.
I primi a rientrare arrivavano ancora carichi di adrenalina, con lo sguardo vivo di chi aveva affrontato la strada come una sfida personale, ma man mano che il pomeriggio avanzava e il sole si piegava appena verso l'orizzonte, l'intero locale veniva totalmente assalito da individui assetati che avevano lottato con il caldo, con la stanchezza e con la strada che sembrava non finire mai. E in quel momento, ogni arrivo diventava il piccolo trionfo di chi è sopravvissuto in battaglia.
Quando ogni arrivato si sfilava il casco, mostrava con orgoglio agli altri partecipanti il viso trasfigurato: occhi arrossati, capelli appiccicati e unti, espressioni di chi aveva visto (o insultato) tutti i santi. Le giacche venivano aperte con sofferenza, le protezioni si staccavano a fatica dai corpi sudati e appiccicosi, come se fossero state incollate con Bostik. L'odore, fra i tavolini del bar, era un misto tra stalla e spogliatoio, tra pelle cotta e deodorante che non ha fatto il suo dovere, ma nessuno si lamentava. Perché in quel momento, quando lo sguardo si incrociava con quello degli altri, bastava una parola per cambiare tutto:
Era il codice segreto, la parola magica che rompeva la fatica e accendeva i sorrisi. Bastava pronunciarla e gli occhi dell'ultimo arrivato si riempivano di una luce nuova. Le risate esplodevano, le birre ghiacciate correvano di mano in mano alla velocità della luce. Ogni nuovo arrivato veniva accolto con una pacca sulla spalla e una pinta ghiacciata.
Tre giorni, tre rientri, tre celebrazioni. Ogni volta uguale eppure diversa. Il venerdì, la piazza era ancora piena di energia, i corpi affaticati ma tutto sommato freschi. Il sabato, invece, si sentiva il peso dell'impresa, con gambe e schiene indolenzite. E la domenica, l'ultimo rientro, è stato quasi commovente: una processione di moto e motociclisti che avevano compiuto una piccola impresa, stanchi ma pieni di qualcosa che non si poteva descrivere fuori dal contesto, ma che si poteva assolutamente condividere con i compagni di avventura.
Quel bar, per tre pomeriggi, è stato la casa di una tribù. Una tribù fatta di sconosciuti uniti dalla stessa grande passione. E in quel cerchio magico fatto di chiacchiere, racconti, critiche accese e risate sincere, si è creata un'atmosfera rara. Lontana anni luce dai vecchi raduni rumorosi e disorganizzati, e diversa anche dalle gare vere e proprie. Questo è un nuovo modo di vivere la moto: più intimo, più vero, più umano, perchè la 20.000 Pieghe non è mai stata una vera e propria gara.
Ogni edizione ha avuto un sapore diverso, e questa volta è stata una sfida contro se stessi e contro il dio del sole in persona, una danza collettiva tra paesaggi mozzafiato e curve senza fine che ha trovato il suo punto più alto - paradossalmente - tra i tavolini di un bar. Perché quando tutto finisce, con il cuore leggero e la pelle ancora calda di sole, ci si accorge che tra tutte le pieghe fatte in tre giorni (che siano effettivamente 20.000 o meno, poco importa), la più importante è senza dubbio quella del sorriso di chi ha offerto una birra senza chiedere nulla in cambio, se non un sorriso di rimando e una chiacchiera fra chi ha appena condiviso una delle sudate più divertenti della sua vita.
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