Il Covid-19 ha stoppato l'edizione 2020 Il TT è una gara che apre spesso discussioni sul senso della vita, sulla libertà di affrontare il Mountain. Ecco il pensiero di alcuni grandi protagonisti
"Il rischio fa parte del gioco, se fosse possibile estirparlo, toglieresti il bello della faccenda - ammette Peter Hickman, il rider più vincente del TT 2019 con tre centri in Superbike, Supersport e Superstock, oltre che detentore dallo scorso anno del record assoluto -. Le corse su strada sono questo. O le accetti o le eviti. Libera facoltà di scegliere. Ma con un dovere minimo: rispettare chi le fa".
Già, ma per quale motivo ogni anno, tra TT, Classic TT e Manx Grand Prix (non meno di tre-quattrocento piloti, tra moto moderne e d’epoca, più i sidecar, con pochi professionisti e tantissimi dilettanti) accettano con puntuale e innamorata passione la sfida del Mountain Circuit, pur consapevoli che in media due o tre di loro - tra le gare di giugno e quelle di agosto - non faranno ritorno a casa?
"Semplice - dice Nick Jefferies, zio del rimpianto David, veterano di 67 anni, al top nella F1 TT 1993 con la Honda ufficiale e fino a due stagioni fa buon pilota nel Manx - centinaia di piloti corrono ogni anno sul Mountain felicissimi di farlo perché gareggiare sul tracciato dell’Isola di Man è la cosa più eccitante che nella sua vita un uomo può fare da vestito".
Meno aforistico e più analitico Ian Lougher, 55 anni e a podio nel TT Zero 2019 per moto elettriche: "Il giudizio più superficiale e sommario che sento dare sul TT è che viene corso da pazzi o, peggio, da scriteriati. È vero esattamente il contrario. Ho preso il via a quasi 150 gare in oltre 35 anni di carriera, tra TT e Manx. Ho vinto 10 TT e sai quante volte sono caduto nella mia vita sull’Isola? Tre. Una mi si è chiuso lo sterzo in un tornantino, quindi non contarla. Un’altra volta sono scivolato sul liquido che il motore aveva perso imbrattando la ruota, perciò zero cavolate mie, e nella terza, a Union Mills, pochi anni fa, ho sbagliato io. Gran botta. Una sola con piena colpa mia, in quasi quarant’anni. E sai com’è? È troppo. Perché una volta basta per lasciarci la pelle, qui. Altro che folli e sconsiderati: i piloti specialisti del Mountain sono i più prudenti, ricamatori, calcolatori, freddi, sereni e precisi in tutto. Rispettano il tracciato come una divinità perché sanno che per ogni errore molto probabilmente non v’è perdono previsto né remissione possibile. L’attenzione assoluta - conclude Ian -, la dedizione al proprio senso del limite sono il prezzo da pagare al godimento totale promesso e concesso da un giro sul Mountain".
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