Storie di Moto: la Lamone e il suo creatore Gianò

Storie di Moto: la Lamone e il suo creatore Gianò

Dai micromotori ai fucili, dalle stufe a una rivoluzionaria 125 GP, fino a prototipi dal consumo irrisorio. Poca scuola e tanto ingegno, Giovanni Melandri inventò di tutto

Dario Ballardini

16.02.2022 12:31

Per leggere questa storia sarebbe meglio imparare a dire ”Gianò” in romagnolo, chiudendo la parola con una “n” nasale che non è scritta ma c’è. “Gianò” cioè Giovanni Melandri, perché nelle zone che furono del Passatore tutti devono avere un soprannome. E fuori dalla Romagna non sono in molti a conoscere il Lamone, né il fiume né il marchio motociclistico. Eppure dietro c’è una storia bellissima. Prende le mosse da un progettista geniale che non era andato oltre la seconda elementare e finisce con una 125 da Gran Premio rivoluzionaria; sarebbe potuta andare pure più avanti perché ancora a 92 anni il nostro inventore stava sviluppando motori a due tempi dai consumi incredibilmente ridotti, ma non ebbe il tempo di arrivare alle conclusioni.

Lamone non era un marchio di ciclomotori come gli altri

Mezzano è un paese con meno di 5000 anime in mezzo al nulla della “Bassa” a nord di Ravenna, sulla riva destra del fiume Lamone. Lì nel 1913 era nato Giovanni Melandri detto ”Gianò” e se a scuola era andato poco, aveva studiato tanto per conto suo, sui libri e sul campo. A 12 anni aveva già progettato e costruito un piccolo motore ad aria compressa perfettamente funzionante.

I micromotori Lamone non erano tutti uguali: anche se può sembrare incredibile, venivano adattati uno per uno. "Smontandoli, non ne abbiamo mai trovato uno uguale all’altro – racconta Matteo Chinellato storico, collezionista e organizzatore nel 2018 di una mostra sulla Lamone –. Non ci si limitava ad assemblarli in catena di montaggio, i travasi venivano fresati a mano e le unità destinate a tricicli a pedali e carretti venivano consegnate con il rapporto più corto". Per chi voleva acquistare il veicolo completo venne realizzata una ciclistica ammortizzata anche posteriormente – cosa rarissima perché molto spesso i micromotori venivano montati su biciclette –, denominata “Lepre”. Però i punti vendita erano pochissimi – la cooperativa, a Mezzano, la bottega del ciclista Fabbri, una ditta di Bologna e poco altro –, perdipiù per un errore di valutazione venne prodotta un’eccessiva quantità di pezzi di ricambio e molti soci della cooperativa, temendo di essersi imbarcati in una impresa troppo costosa per le loro possibilità, decisero di cessare la produzione. Complessivamente furono costruiti circa 330 unità e 4 o 5 telai; Chinellato ha registrato circa 40 esemplari ancora esistenti e ipotizza possano essercene ancora un’altra decina, ricercatissimi dai collezionisti, e una sola ”Lepre”, esposta al museo COMP di Pierluigi Poggi.

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