L'epoca dell'Honda Hornet Cup: ecco quando correre era semplice

L'epoca dell'Honda Hornet Cup: ecco quando correre era semplice

LA STORIA - Il ritorno della rinnovata naked di Tokyo riporta alla memoria il trofeo monomarca che animava le piste di tutta Italia e che si correva con l'antesignana. Un campionato vivacissimo, ancora poco costoso, divertente

23.03.2023 ( Aggiornata il 23.03.2023 10:35 )

Ricordo solo che volevo correre in moto. In pista. Ginocchio a terra. Gomiti larghi. Adrenalina. Ma ricordo anche che non avevo una lira in quel periodo. Siamo nei primi anni 2000, laureato da poco, avevo iniziato a bazzicare la redazione del mio primo magazine. Con il relativo primo (non proprio ricco) stipendio. Ma, accidenti, volevo correre a tutti i costi. Era un pensiero fisso nonostante l'età per sfondare (ammesso e non concesso che avessi quel talento che serve per arrivare davanti..) era passata da un bel po'. Feci i conti: qual è il campionato più economico per iniziare? Risposta quasi automatica: l’Honda Hornet Cup. Mi ci sono buttato come se la questione fosse di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’intero genere umano.

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Una preparazione semplice e costi contenuti

Bastava poco per scendere in pista. Una Renault Clio da oltre 200mila chilometri con gancio, un carrello, una Hornet, cavalletti, termocoperte, un po’ di attrezzi e una tenda per dormirci vicino la notte nel paddock. Quanto alla moto, il mondo dell’usato offriva molti esemplari a prezzi appetibili: quella moto, la seconda versione con ruota anteriore da 17”, era realmente indistruttibile. Un motore che bastava cambiargli l'olio, una moto tanto semplice tecnicamente quanto bella da vedere. E poi c'era il kit fornito dall’organizzatore, che era abbastanza completo per preparare la moto. C’erano le plastiche (cupolino, pancia inferiore e codone...), le pedane rialzate in lega leggera, un treno di gomme e il terminale di scarico (se non ricordo male...). E ancora, lubrificanti e prodotti vari da usare durante la stagione.

"Sponsor? Mamma e papà quando andava bene..."

La preparazione andava fatta rigorosamente nel garage di casa, meglio se di notte con una birra, fatto salvo per la forcella: quella era sempre meglio farla fare da un bravo preparatore... per quanto poi non è che fosse particolarmente sofisticata! Una volta montato il terminale (non c'era il catalizzatore allora) c'era da fare anche la carburazione che ovviamente richiedeva il banco prova e mezzo chilo di getti per i carburatori. Che poi, farla, era un delirio di lavoro considerato come i carburatori erano incastrati sotto il grezzo monotrave in acciaio di sezione rettangolare. Bisognava tirare giù il serbatoio, poi la scatola del filtro, mollare le viti dei condotti di aspirazione e bestemmiare per sganciare i cavetti del gas. Su, giù, su, giù fino a quando la curva di coppia dava delle soddisfazioni. Non è che si guadagnassero decine di CV, ma quantomeno si puliva l’erogazione. Che in pratica si traduceva nella possibilità di usare un dente in meno di corona in qualche pista per guadagnare qualche km/h.

Il resto era tutto “home made”: via tutte le plastiche, rimaneva solo il serbatoio e i fianchetti. Poi andavano fatti i supporti per la carenatura inferiore, il frontale (che quelli in dotazione non andavano mai bene) e il codone, che inglobava anche la porzione di sella posteriore. Si montavano gli immancabili tubi freno in treccia e un manubrio dalla piega bassa per guadagnare un po' di carico sull'avantreno. Nulla di più. Per essere più fighi, una bomboletta e del colore appariscente. Sponsor? La “mamma e papà” quando andava bene...

 Vita da paddock, semplice e frugale

Poi le gare. La competizione era notevole. La griglia davvero numerosa. Ma l’ambiente era amichevole: insomma, i consigli (non troppi) per i neofiti non mancavano. Soprattutto per scegliere la rapportatura giusta: corona, pignone e le marce da usare su ogni singola curva. Che poi, era l'unica cosa che si poteva fare per rendere la moto più veloce. L'assetto, infatti, lasciava poco spazio alla fantasia con le prime versioni. Una volta trovate le altezze giuste di avantreno e retreno i giochi erano fatto. La forcella, nelle prime versioni, non era regolabile, il mono sì, ma non faceva miracoli. Anche perché il punto debole era la struttura ciclistica, con quel monotrave in acciaio che soffriva ogni sollecitazione. Ricordo il dramma del chattering (e chi ne sente più parlare oggi...), con il pneumatico anteriore e la forcella che sembravano smontarsi dalle vibrazioni. Tanto che alla fine conveniva usare una mescola stradale delle Michelin d'ordinanza. Meno grip, meno sollecitazioni alla ciclistica, meno problemi...

In gara quelli da battere erano i soliti, velocissimi, imprendibili. Poi c’era il gruppone a ridosso dei primi. Guidare la Hornet (prima serie) non è che fosse un’esperienza esaltante. Ma era divertentissimo. Fletteva tutto, ondeggiava, si muoveva... a causa di una ciclistica che per certi versi era sottodimensionata rispetto alle potenzialità del motore. Che, ricordiamolo, in quel periodo veniva usato anche sulla CBR 600 schierata nel Mondiale SuperSport. Anni eroici, anni di paddock gremiti all’inverosimile. Tanti piloti che arrivavano col carrello, senza doppi cerchi, nessuna hospitality o borracce con integratori in mano di pilotini che già si credono star. La mia “struttura” era un gazebo comprato al supermercato (che quelli veri costavano troppo), l'auto carica all'inverosimile e il carrello. Si lavorava così, un treno di gomme usate per le prove libere, un posteriore nuovo per le ufficiali, un treno competo per la gara. Pregando perché non piovesse all'ultimo minuto. E chi li aveva i doppi cerchi per le rain? Che poi era una voce di costo non prevista che andava ad aggiungersi a quelle di trasferta, alla benzina, alle già preventivate gomme da asciutto. Si dormiva in tenda, a volte in auto (quando faceva davvero freddo o pioveva), si mangiava con il fornello da campo. Ci si trovava con gli altri piloti la sera.

E si cadeva...

...a volte banalmente, altre un po' più seriamente, come alla prima uscita del 2004 a Vallelunga. Che allora era ancora “corta” e c'era la variante della Trincea. L'uscita nel curvone a sinistra da quarta marcia, l'hi-side, un volo che non ricordo nemmeno quanto è durato, e la moto che rotola per decine di metri fin quasi dentro alla curva del Semaforo. Si ruppero anche gli attacchi del basamento del motore dalla botta. Ne uscii malconcio, sanguinante e... asimmetrico nella vista frontale, con una spalla messa così così. Ma nulla che potesse fermare la mia sete di gare. Moto da buttare. Quasi tutta: il motore ce l'ho ancora, in un angolo del garage. Lì da quasi vent'anni. Ad attendere. Ci sono affezionato a quel blocco di metallo. Ognuno ha le sue debolezze... La mia si chiamava Hornet Cup.

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