Kawasaki GPZ

Kawasaki GPZ

Redazione - @InMoto_it

01.05.2013 ( Aggiornata il 01.05.2013 15:06 )

L’energia, il dinamismo e la voglia di cambiamento degli anni Ottanta si riflettono in campo motociclistico nella rincorsa alle novità tecniche e stilistiche. Le GPZ furono tra le migliori interpreti di questa filosofia     Quattro decenni fa le Case giapponesi furono capaci, di Salone in Salone, di esporre realizzazioni accattivanti, affidabili e ricercate, pur destinate a diventare obsolete nell’arco di una stagione. Si strizza l’occhio alla carenatura completa, anche per le semplici 125 rivolte al target giovanile; tutto deve apparire sportivo e ciò spiega la popolarità delle Race Replica. Un esempio, nel 1982, la Kawasaki Z 1000 R ad emulare la moto con cui Eddie Lawson vinse l’AMA Superbike. Sono tradotte in chiave moderna, le architetture dei propulsori pluricilindrici. Essi crescono in potenza e adottano la distribuzione a quattro valvole per cilindro, iniziano ad essere raffreddati a liquido e a volte privati dell’alimentazione a carburatori a vantaggio di quella ad iniezione elettronica. A resistere, fino alla metà del decennio, il cambio a cinque rapporti, a sei compare sporadicamente. Si assiste al fenomeno Turbo, vera e propria meteora, con i motori sovralimentati che vanno ad equipaggiare le moto. I progettisti nipponici concentrano l’attenzione sulla ciclistica, comparto in passato afflitto da notevoli carenze. Concepiscono telai equilibrati ed efficaci, spesso forniti di travi diagonali, per meglio supportare la nutrita cavalleria dei propulsori. Sulle forcelle agisce l’anti-dive, dispositivo anti-affondamento dismesso in fretta al pari dell’uso dei cerchi di 16” all’anteriore. Dietro si passa all’ammortizzatore singolo, in sostituzione del doppio. Per le aziende dagli occhi a mandorla i nuovi brevetti assumono queste denominazioni: Uni-Trak (Kawasaki), Monocross (Yamaha), Pro Link (Honda) e Full Floater (Suzuki). Sull’impianto frenante, si affermano, rispettivamente all’avantreno e al retrotreno, il doppio e il monodisco. In questo contesto tanto fluido, la Kawasaki nella serie GPZ, scaturita da un piano di studi avviato nel 1978, perpetua un approccio costruttivo fatto di vitalità, incisività e prestazioni. Attraverso un’ampia gamma di modelli, alcuni dei quali neppure importati in Italia, declina dei classici, deputati a rappresentare il loro momento storico. La serie GPZ e il 1980, sono inaugurati dalla 1100. È una due ruote con cui la Kawasaki, segue l’offerta giapponese, tesa ad enfatizzare il litro di cilindrata, ribadendo così la propria filosofia, volta a perseguire moto sempre più potenti e veloci. Filo conduttore della top di gamma della neonata famiglia è la digital fuel injection. L’idea dell’iniezione elettronica serpeggia da qualche anno in quel di Akashi, benché non si possa parlare della reale volontà di promuovere una sensibilità ecologista. Gli intenti sono conquistare il mercato americano, adeguandosi alle stringenti norme in materia di ambiente e battere sul tempo la concorrenza. In parte ci riesce la GPZ 1100 esposta al Salone di Colonia del 1980, dalla nuda linea compatta, il manubrio alto, l’imponente serbatoio e il motore verniciato in nero. Dal peso a secco di soli 236 kg, la piuma delle maxi in commercio, lancia la sfida di varcare la soglia dei 230 km/h ma, la funzionalità dell’iniezione è messa in discussione dalla centralina posizionata sul codino dove soffre le vibrazioni del quadricilindrico. Inoltre la bassa resa termodinamica e il prezzo importante, intorno ai sette milioni di lire, inibiscono l’utenza. Va parzialmente meglio alla seconda serie dell’82. Rivisitata l’iniezione elettronica, arricchita dal cupolino e da nuovi terminali di scarico e una strumentazione razionale. Il giudizio diviene positivo e pure ai neofiti delle maxi concede una guida appagante, di certo il comportamento su strada privilegia un tracciato misto veloce anziché strette curve in sequenza. La Kawasaki crede ancora nella bontà del progetto e intensifica gli sforzi approntando la 1100 Uni-Trak del 1983 che, esaltando le doti della sorella di seconda generazione, raggiunge una maturità tanto compiuta da caratterizzare per eleganza del design l’intera serie GPZ. Supersportiva, filante e sinuosa, beneficia di una ciclistica incentrata sul classico telaio a doppia culla in tubi di acciaio, però sovvertita nella sospensione posteriore con il monoammortizzatore del sistema Uni-Trak il quale lavora verticalmente spinto verso il basso da bielle e rinvii che lo collegano al forcellone, in precedenza era stato sperimentato dall’azienda sui modelli da cross e da competizione. Davanti agisce una forcella dagli steli di 37 mm Ø con l’anti-dive, il dispositivo antiaffondamento in frenata molto utilizzato in quegli anni. Inusuali le misure dei cerchi in lega a tre razze sdoppiate, 18” all’anteriore e 17” dietro. La moto raggiunge i 238 km/h ed evidenzia un’abitabilità raccolta e comoda con ottimi comandi al manubrio ed al pedale. Bello l’impatto visivo della strumentazione su tre livelli, difficile da tenere sotto controllo con un display LCD sul serbatoio, le spie di servizio ai lati della chiave di accensione e il tachimetro contachilometri insieme al contagiri nella tipica ubicazione. La GPZ 1100 Uni-Trak, trova nella lunghezza massima e nell’interasse di 1.565 mm, i suoi elementi penalizzanti sui percorsi misti e nell’affrontare le curve a stretto raggio. Il palpitante quadricilindrico di 1.089 cm³, salito in una manciata di anni da 97,5 CV a 8.500 giri a 120 CV a 8.750 giri dall’indole sportivissima, esibisce un allungo da togliere il fiato e il tiro inesorabile lo elargisce dagli 8.000. I 400 metri con partenza da fermo li compie in soli 11 secondi netti. Un bel record per l’erede di quello nato per la Z1 900, adesso indirizzato lungo l’inevitabile viale del tramonto. Il valore collezionistico della GPZ 1100 Uni-Trak è attestato dai 2.000 ai 2.500 euro e quando esce dal listino, nel 1986, non lascia un vuoto incolmabile (eccetto per lo scrivente...). Dentro la crisi del settore motociclistico datata Anni Ottanta, vanno approfondite le ragioni delle sue vendite inferiori alle aspettative, con un dato su tutti: la produzione giapponese subisce un calo costante e dai 7,4 milioni di unità del 1981 passa ai 2,69 del 1989. Per contrastare il trend la Kawasaki guarda allora anche ad altre cilindrate. Si concentra sulla 550 cm³, destinata a divenire punto di riferimento per una buona fetta di motociclisti, in prevalenza giovani. La GPZ 550 presentata al Salone di Colonia nel 1980 e alla stampa italiana a Monza, nel febbraio del 1981, esprime l’anima della Casa con la sua linea grintosa sottolineata dal cupolino e offre in sella un giusto compromesso turistico-sportivo. Carente nelle finiture, aveva il brillante propulsore bialbero a quattro cilindri e otto valvole dai 58 CV a 9.000 giri, il telaio a doppia culla chiusa dai rinforzi al cannotto di sterzo e al retrotreno, cerchi di 19” davanti e 18” dietro con doppio ammortizzatore posteriore e comandi robusti ed adeguati. Stabile sui curvoni veloci al pari dei rettilinei, era un pelo manchevole nella risposta dei due dischi freno anteriori. Quelle che sono percepite come piccole pecche, scompaiono sulla GPZ 550 Uni-Trak del 1982, il principale cambiamento consiste nell’introduzione del monoammortizzatore regolabile al posteriore, il quale contribuisce ad ottimizzare il confort, la precisione e l’efficacia della ciclistica. Bella la linea, da superare per armonia, eleganza, accuratezza nei particolari, l’allestimento precedente. Impensabile per la Kawasaki sostenere investimenti per disegnare un altro motore e allora ecco riconfermatissimo il quattro cilindri bialbero accresciuto di 3 CV e di 500 giri da arrivare a 61 CV a 9.500 giri. L’entusiastica accoglienza unita ai vantaggiosi raffronti con le coeve Yamaha XZ 550, Suzuki 550 Katana, Honda CBX 550, ne fanno la regina delle medie cilindrate. Il decorso produttivo della GPZ 550 Uni-Trak conclusosi nel 1985, annovera un allestimento totalmente aggiornato nell’aspetto esteriore proposto al Salone di Parigi del 1983 da renderla uguale alle GPZ 1100 e 750. Sempre in quell’occasione il propulsore di 553 cm³ riceve un’iniezione di CV e giunge a sprigionarne 65 a 10.500 giri. Dagli utenti è apprezzata per versatilità, tenuta di strada, maneggevolezza e parsimonia nei consumi. Per un esemplare in buono stato di conservazione, possono essere richiesti 2.000 euro. La Kawasaki segue la generale riscoperta della “tre quarti di litro” determinata, tra l’altro, dall’inasprirsi delle norme di legge su limiti di velocità e potenza in relazione al prodotto di serie. epo3 La famiglia GPZ accoglie allora la 750 che nel 1982 acquisisce la veste definitiva, ritoccata nelle grafiche fino al 1986, e l’Uni-Trak. Disinvolta senza compromessi, viene incontro ai fans delle maxi, intimoriti dal loro prezzo di acquisto, mole e difficoltà di costi di esercizio. Sul tradizionale quattro cilindri bialbero frontemarcia di 86 CV a 9.500 giri, l’alimentazione come sulla GPZ 550 avviene tramite quattro carburatori Mikuni. Le valvole sono sempre otto mentre la concorrenza giapponese è passata a sedici. Il telaio a doppia culla si conferma validissimo al pari della forcella con anti-dive regolabile su tre posizioni. Sui cerchi in lega leggera da 18” posti due dischi forati all’anteriore da 236 mm e uno da 226 dietro, orientati a favorire una frenata modulabile e sicura. Spiccano tra le qualità di questa ambiziosa 750 l’efficacia aerodinamica, la grande stabilità su qualsiasi percorso e l’accelerazione. Volendo enumerare qualche difetto, lo sforzo per issarla sul cavalletto centrale e l’inospitalità per il passeggero, ma d’altra parte non è obbligatorio per una moto sportiva essere anche accogliente. Alle rassegne d’epoca, può essere acquistata spendendo circa 2.200 euro. La Kawasaki delle quattro sorelle giapponesi è l’ultima ad entrare nell’universo “Turbo”. Lo penetra nel 1981al Salone di Milano con la GPZ 750 Turbo, commercializzata in Italia dal settembre 1983. Svetta all’apice del prezziario rispetto alla Honda CX 500 Turbo, Suzuki XN 85 Turbo e Yamaha XJ 650 Turbo, resistendo in listino due anni. Avendo come base la 750 alimentata a carburatori, la moto si distingue per la maggiore cilindrata e le migliori performance rispetto alle rivali. Il propulsore a 9.000 giri sfodera 112 CV, rimanendo il più trattabile e docile da gestire. I rari esemplari reperibili oggi possono raggiungere quotazioni vicine ai 5.000 euro. In un periodo economicamente incerto quanto fervido e prolifico di perfezionamenti ed elaborazioni, nonostante poggino su vecchie idee, ogni azienda motociclistica investe con perseveranza e coraggio le risorse per ottenere il massimo dei benefici. Ad Akashi la ricerca e valorizzazione dell’eccellenza in una cilindrata inconsueta dà origine alla GPZ 900 R, proiettata al top della gamma in sostituzione della GPZ 1100. Atterra sul nostro pianeta nel 1983 al Salone di Parigi per intraprendere la sua stimatissima permanenza fino al 2003, sebbene dopo due anni abbandoni l’Italia e dal 1999 rimanga confinata nel continente asiatico. Diventa un sogno da concretizzare, è prescelta al cinema in “Top Gun”, campione di incassi nel 1986, in una scena memorabile con il protagonista Tom Cruise, ed impreziosisce nel 1998 la mostra “The Art of the Motorcycle” al museo Guggenheim di New York, condividendo a fatica la scena con la Honda VF 750 F, la Suzuki Katana 1100 e la Yamaha 1200 V-Max. Tra i neologismi coniati ipermoto è impeccabile, essendo la prima due ruote offerta al pubblico a sovrastare il muro dei 240 km/h. Incanta per il design, dalla carena aderente al motore al cupolino mutuato dalla GPZ 1100 Uni-Trak e GPZ 750 Turbo. In venti anni oltre 200.000 le unità vendute ripartite in più serie, in Italia 3.000 nel biennio ’84-’85 al prezzo di 9.698.200 lire; inferiore a quello delle GPZ 1100 Uni-Trak (10.402.000 lire), BMW K100 RS (11.590.000 lire) e Yamaha FJ 1100 (10.815.000 lire). Alla GPZ 900 R il merito di avere rinverdito l’interesse intorno al propulsore a quattro cilindri aspirato, in grado di sopravanzare quelli con cubature maggiori e i Turbo. Eroga 115 CV a 9.500 giri e dal passato eredita soltanto la disposizione dei cilindri in linea frontemarcia, il resto è riprogettato. Inediti l’impianto di raffreddamento a liquido e la distribuzione a quattro valvole per cilindro, mosse da bilancieri sdoppiati e comandati da due alberi a camme in testa con la catena connessa alla sinistra dei cilindri. Finora in campo motociclistico era stata sempre privilegiata la posizione centrale della catena di distribuzione. Adottati poi, il cambio a sei rapporti ben spaziato e preciso negli innesti, ripreso e affinato da quello della GPZ 550, e un albero controrotante per limitare le vibrazioni. Dalle misure interne superquadre è compatto con un ingombro orizzontale di appena 45 cm; ad alimentarlo, lasciata l’iniezione elettronica sulla GPZ 1100, provvedono quattro carburatori Keihin. Al telaio in tubi dal trave superiore a traliccio con rinforzi ed una triangolatura posteriore, è appeso il motore che funge da elemento stressato della ciclistica. Definito “a diamante”, sarà ripreso sulla granturistica GTR. La forcella Kayaba, con steli di 38 mm Ø munita del sistema antiaffondamento brevettato dalla Kawasaki AVDS – automatic variable damping system – si abbina al forcellone oscillante in tubi quadri di alluminio operante con l’Uni-Trak. In sella la posizione è sportiva e polsi e braccia vengono caricati in modo quasi esagerato. L’elasticità del motore permette di usare le marce alte pure a basse velocità, tuttavia è alle alte che dà immense soddisfazioni con le sospensioni pronte ad assorbire le asperità del suolo facendo immaginare di procedere su una rotaia e i freni sempre pronti e progressivi. Nata già grande, la GPZ 900 R subisce pochissimi interventi di rilievo negli anni, eccetto le variazioni cromatiche, l’utilizzo di pinze freno a doppio pistoncino e del cerchio anteriore di 17” in luogo di quello di 16”, tipico della prima versione ambita dai collezionisti e prospettata ad oltre 2.300 euro. Fatto centro con una due ruote che nel 1984 è indicata in Europa moto dell’anno, la Kawasaki per fronteggiare Honda, Suzuki e Yamaha con le loro VFR, GSX-R ed FZ, lancia nel 1986 la GPZ 1000 RX. Dovrebbe porsi come naturale evoluzione della 900 R, per essa si dichiarano prestazioni ragguardevoli, velocità massima di 260 km/h scaturita da un motore di 125 CV a 9.500 giri. Il peso eccessivo, la linea affatto armoniosa e la scarsa maneggevolezza le tributano un ruolo più da granturistica che da sportiva penalizzandola e, sono sufficienti due anni di listino per concedergli il pensionamento. Di tutt’altra levatura il cammino della GPZ 600 R del 1985, detentrice di un florilegio di tecnica e performance che le spianano la strada verso i consensi. Di raffinata fattura e dal gruppo serbatoio, sella e codino integrati in maniera perfetta unitamente alla bella carenatura integrale, si mostra leggera, potente, scattante, ben gommata, precisa negli inserimenti e nel tenere la linea della curva. Per farla propria occorrevano 8.850.800 lire, chiavi in mano, attualmente, le valutazioni per un mezzo collocabile nell’arco costruttivo protrattosi fino al 1989, permangono sui 2.000 euro. Il silenzioso quattro cilindri in linea sedici valvole raffreddato a liquido della GPZ 600 R, è vicino per concezione realizzativa a quello della 900 R ed eroga 75 CV a 10.500 giri, tocca la velocità massima di 220 km/h e percorre i 400 metri con partenza da fermo in 12” netti. Ridisegnato il telaio, a doppia culla chiusa in tubi a sezione rettangolare assistito dal forcellone oscillante e l’Uni-Trak e dalla forcella Showa con steli di 38 mm Ø e il sistema AVDS, i cerchi sono di 16”. La ciclistica valida risente molto dell’asfalto sconnesso mettendo a dura prova le capacità di guida. La pista è l’habitat naturale della GPZ 600 R. Assurta a modello di riferimento per la sua cilindrata, induce la Kawasaki a perseverare nel mantenere il primato. Tale onere, con minor successo, spetta alla GPX 600 R che prende elementi estetici e tecnici dalla 750 GPX-R. Appartenenti alla famiglia GPZ vanno menzionate la 500 S, bicilindrica sportiva ed economica, proposta dal 1986 al ’90 e la GPZ 305 S anch’essa bicilindrica, dalla particolare cubatura e infrequente, per la produzione nipponica, trasmissione finale a cinghia dentata. epo2

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