Motus MST-R

Motus MST-R

Redazione - @InMoto_it

01.09.2012 ( Aggiornata il 01.09.2012 13:54 )

L’americanissima motus, con sede in alabama, ha realizzato una sport-tourer con quattro cilindri a v, dalla forte personalità e di livello tecnico elevato. l’ispirazione? moto guzzi, naturalmente! Non c’è nulla di più americano, motoristicamente parlando, di un grosso V8 con distribuzione ad aste e bilancieri, magari studiato e prodotto a Detroit. Non è dunque un caso se la Motus nasce proprio da quelle parti ad opera della specialista Katech, autrice – ad esempio – del propulsore della Corvette capace di vincere la classe GT1 della 24 ore di Le Mans nel 2006. Motus, con sede a Birmingham, Alabama, ha deciso nel 2008 di realizzare qualcosa che mancava: una sport-tourer tutta americana, con le caratteristiche che contraddistinguono un propulsore “Made in USA”. «Dopo un giro con gli amici ci siamo seduti ad un tavolo, cercando di definire le caratteristiche della moto perfetta per l’uso che ne facciamo – racconta Lee Conn, trentanovenne presidente di Motus. – Doveva avere un motore ricco di coppia, efficiente sui percorsi lunghi, un bel serbatoio, un cupolino regolabile, valigie, peso e baricentro bassi, e via discorrendo. Alla fine, ci siamo resi conto che serviva una sport-tourer, e non esistono Case americane che ne producano». Da lì a stendere un piano d’azione è bastato pochissimo. Motus è stata fondata nel 2008, nel bel mezzo della crisi economica. Apparentemente il momento peggiore, che è stato visto invece da Conn e dal socio Brian Case come una grande opportunità: non avrebbero avuto nulla da vendere per almeno quattro anni, dando tempo all’economia di riprendersi. E sarebbe stato un momento propizio per convincere case come Michelin, Ohlins, Brembo e Marelli a lavorare con Motus. Una Casa che, solo cinque anni prima, non avrebbero mai preso in considerazione. E non guastava il fatto che Conn avesse in tasca i soldi venuti dalla vendita della sua azienda di materiale medico, e che Case fosse il tecnico responsabile della progettazione della Confederate Wraith. Fin troppo facile trovare nel V4 di grossa cilindrata con distribuzione ad aste e bilancieri la configurazione ideale; l’ispirazione, Lee, l’ha trovata in casa: il padre elaborava da solo le Moto Guzzi con cui poi stabiliva record di velocità sul lago salato di Bonneville. La serie di coincidenze propizie prosegue con la dismissione di Buell, l’unico marchio che avrebbe potuto rivaleggiare con Motus, ad opera di Harley-Davidson. Proprio pensando a quello, Conn spiega come «Avremmo potuto essere pronti per la produzione già due anni fa, scegliendo di montare un propulsore Rotax, o il solito bicilindrico S&S come fanno gli altri. Ci abbiamo pensato, ma volevamo che Motus non fosse la solita moto tutta pezzi da catalogo, bensì un progetto olistico, nato dal motore e con il resto della moto sviluppato attorno. Un progetto dal sapore europeo, dove si pensa e si crea tutta la moto, invece che plug-and-play, come fanno le piccole case americane». Buona parte della moto è stata pensata interpellando direttamente i potenziali clienti, da cui sono nate diverse idee. Ad esempio, la MST (Motus Sports Tourer) era stata pensata per offrire un GPS integrato. Poi, Conn e Case si sono resi conto che la maggioranza degli utenti ne aveva già uno, decidendo dunque per un semplice supporto. Proseguendo nell’analisi, è risultato evidente come facesse molto comodo anche una presa d’alimentazione per un cellulare. «Non abbiamo realizzato la Motus su commissione, ma uno dei principi fondamentali del nostro progetto è che è importante ascoltare il cliente». Una volta ottenuti i primi due prototipi, Conn e Case si sono imbarcati in un giro degli Stati Uniti (compreso un passaggio nel paddock del GP di Laguna Seca, dove la Motus è stata ufficialmente tenuta a battesimo) su una grandissima varietà di percorsi fino ad arrivare a Los Angeles, dove si è svolto il mio test. La fase successiva prevede la realizzazione di cinque esemplari di preserie, che verranno dati in mano a potenziali clienti per una prova di almeno 10.000 miglia, da cui i due raccoglieranno esperienze e suggerimenti per dare vita alla versione finale, che andrà in produzione e verrà consegnata ai primi clienti a metà 2012, in due versioni: una base, con componentistica valida ma non eccessivamente costosa, e una “R”, con cerchi in carbonio ed altre delizie del genere. E poi, magari, quella versione con compressore da 300 CV di cui Conn e Case parlano spesso… Il motore è il cuore di una moto, il principale responsabile della sua personalità, ma diventa sempre più difficile trovare configurazioni che non siano già appannaggio di qualche marchio. Motus ce l’ha fatta, trovando uno schema unico nel panorama mondiale e allo stesso tempo profondamente legato a quel V8 tanto legato alla tradizione americana. Un V4 trasversale, inclinato di 15°, con i collettori di scarico in vista, a connotare esteticamente la moto in maniera personale. Il risultato è dunque un 1.645 cm3 raffreddato a liquido a valvole in testa con comando ad aste e bilancieri ed azionamento idraulico. La V di 90° è perfettamente equilibrata per le vibrazioni del primo ordine, ma in questo caso si fa ricorso a ben due alberi controrotanti per eliminare completamente anche quelle del secondo ordine. I pistoni sono a tre segmenti, realizzati partendo da unità Cadillac, e scorrono in camicie al Nikasil fissati a bielle in acciaio forgiato a loro volta operanti su un albero motore a tre supporti. La fasatura è strana (75°, con ordine degli scoppi 1-4-3-2) ed è in buona parte motivata dal desiderio di Conn e Case di conferire al propulsore un timbro personale alla voce della MST-R. L’albero a camme singolo è montato al centro della V, soluzione anche questa fedele alla tradizione di Detroit. Le valvole, due per cilindro e in acciaio, hanno diametro di 44,5 e 36,8 mm rispettivamente per aspirazione e scarico, e formano un angolo compreso di 24°. La pompa dell’acqua, sulla parte anteriore, prende il moto dall’asse a camme, mentre nella zona posteriore troviamo il cambio trasversale a sei rapporti, che trasmette il moto alla finale attraverso una frizione FCC multidisco in bagno d’olio. Con una zona rossa posta a soli 8.000 giri, il motore KMV4 eroga 161 CV all’albero a 7.800 giri, con un valore di coppia massima di 165 Nm a 4.500 giri, confermando la volontà di creare un propulsore ricchissimo di coppia. Fattore che ha creato qualche problema nella scelta della trasmissione finale, caduta sulla catena per i problemi che avrebbe avuto una cinghia nel gestire un’erogazione di tale portata. La soluzione a cardano è invece stata scartata per il peso che avrebbe comportato. Il Motus KMV-4 è il primo propulsore motociclistico a quattro tempi di serie ad essere alimentato con iniezione elettronica diretta, ormai comune sulle auto, e già visto solo sulla sfortunata Bimota 500 VDue. Grazie alla centralina Marelli, a una mappatura estremamente curata e a pressioni all’iniettore irraggiungibili qualche anno fa (si parla di oltre 100 bar!) si ottengono maggior potenza, minor consumo e ridotte emissioni inquinanti. Al momento attuale non è ancora stato deciso se verrà impiegata l’iniezione diretta (si sta lavorando anche su un propulsore con alimentazione tradizionale), pare che la soluzione stia dando ottimi risultati. Il telaio è un traliccio in acciaio al cromo-molibdeno (non preoccupatevi, la zona attorno al perno forcellone verrà “ripulita” nella versione finale della MST-4) dotato di una forcella Ohlins a steli rovesciati di 43 mm Ø inclinata di 26° e con avancorsa di 102 mm, per un valore d’interasse pari a 1.475 mm. La ripartizione del peso è 52/48%, che diventa un 50/50 perfetto considerando un pilota di circa 90 kg in sella. Il peso a secco, comprese le due valigie Givi di serie, è di circa 222 kg, ma comprende tutto l’impianto di acquisizione dati attualmente montato sui prototipi; in versione definitiva dovrebbe scendere attorno ai 213 kg, compreso un serbatoio da 22,7 litri che dovrebbe garantire un’autonomia di circa 400 km alla velocità media di 100 km/h. L’idea iniziale prevedeva un forcellone monobraccio, poi scartata in favore di una più leggera ed economica unità convenzionale, azionata da un monoammortizzatore Ohlins con regolazione remota del precarico. Cerchi e freni sono ancora in via di definizione, con l’unica certezza in merito alle misure degli pneumatici, che con un posteriore 190/55 chiarisce subito quale dei due impieghi fra sport e touring sia stato privilegiato. Senza dimenticare, comunque, le esigenze dei passisti: manopole riscaldate, prese di corrente, supporto per il navigatore, ecc. Provare una moto ancora in via di definizione è sempre un po’ strano: si parte con l’impressione di essere alla prima uscita con una ragazza davanti a genitori apprensivi, e portarmi via la MST-R di Case e Conn non è stato diverso. E il fatto che sia partito a razzo dal primo semaforo con il preciso intento (mantenuto) di fresare per bene le pedane lungo la splendida strada che si arrampica da Malibu fino alla cima del Las Flores Canyon (700 metri) in sole 10 miglia non ha contribuito alla loro tranquillità. Ma dovevano aspettarselo, perché bastano pochi metri in sella alla Motus per capire come il concetto di sport-tourer sia stato affrontato con netta predilezione per la prima parte della definizione: la MST-R si rivela essere una sorta di Maserati Quattroporte con motore americano… Alla pressione del pulsante d’avviamento (e al completarsi di un preciso rituale necessario per avviare il V4 finché non verrà finalizzata la mappatura di avviamento a freddo del sistema di iniezione diretta) si ha il piacere di ascoltare una delle voci più personali del panorama mondiale, che alterna note di un V8 Chevrolet a toni da zoppicante… doppio bicilindrico Ducati. Per una volta, la posizione di guida sembra stata definita da qualcuno che in moto ci va veramente: è naturale, con una sella bassa (ce n’è una alta optional) e ben disegnata: offre un ottimo supporto, pur stringendosi dove conta, vicino al serbatoio. Le ginocchia vengono protette bene dalla carenatura, e con pedane relativamente basse ed un manubrio piuttosto aperto, ci si trova comodi a sufficienza da pensare di poter affrontare tragitti quotidiani di oltre 700 km senza problemi, pur se la voglia di un’imbottitura in gel per la sella mi è rimasta. Se non vi trovaste altrettanto a vostro agio, però, nessun problema: la posizione è regolabile: 125 mm di range per il manubrio, con 15° di inclinazione dei manubri. Il plexiglass del cupolino offre 75 mm di regolazione in altezza, mentre sfortunatamente sono fisse le pedane, che impediscono di sfruttare completamente la gomma posteriore di 190 mm. Una 180 non sarebbe altrettanto valida esteticamente, ma aumenterebbe sensibilmente l’agilità senza penalizzare la trazione. Ma veniamo al motore: mi aspettavo una forte coppia di rovesciamento, come su tutti i motori con albero longitudinale, ma il KMV-4 è stato una piacevole sorpresa. Sgassate da fermi, e la Motus tenderà ad inclinarsi, ma una volta innestata una marcia l’effetto svanisce. La coppia di rovesciamento viene annullata in parte dai due contralberi, in parte dal cambio: geniale. Le vibrazioni sono del tutto assenti fin verso i 7.000, e anche dopo non si sentono granché. Considerando comunque come nella guida venga naturale sfruttare l’arco di giri che va dai 3.000 ai 6.500 giri, il problema praticamente non esiste. Al momento attuale l’iniezione diretta è troppo brusca nella ripresa dal tutto chiuso, un po’ come avveniva sulla vecchia Yamaha R7, e diventa difficile guidare con fluidità sul misto, ma si tratta di un problema legato alla mappatura ancora provvisoria. Più preoccupante la durezza della frizione, degna di una Ducati a secco, mentre la scelta dei rapporti si rivela azzeccata per il tipo di erogazione del motore. La strumentazione – un cruscotto digitale Koso – è leggibile ma manca disperatamente di un indicatore della marcia inserita, che data la coppia erogata dal motore va vista come una carenza molto grave. La guida è facile e intuitiva, più da sportiva che da tourer, e con feedback e agilità quasi innaturali per una moto dotata di valigie. In discesa, in realtà, l’impianto frenante scelto (dischi Braking a margherita con pompa radiale di 19 mm Ø e pinze monoblocco radiali) si è rivelato troppo aggressivo. Gli altri difetti, minori, comprendono un raggio di sterzata troppo ampio, e una trasmissione di calore un po’ eccessiva nel traffico da parte del motore. Ma si tratta, appunto, di problemi minori. Sistemate la frizione prima, ragazzi!  

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