Kawasaki 750 H2 Mach IV

Kawasaki 750 H2 Mach IV
Esagerata, scorretta, affascinante come una persona viziosa e sopra le righe. Da questi tre cilindri a due tempi non si andò più avanti. Unica nel suo genere, irripetibile

Redazione - @InMoto_it

01.03.2013 ( Aggiornata il 01.03.2013 17:41 )

C’è una moto nata quando il fumo non era ancora stato messo al bando, e che rappresenta la potenza pura, quella che ti allunga le braccia in accelerazione. La moto è la Kawasaki 750 H2 Mach IV e il periodo corre fra i primi anni Settanta, per la precisione il 1971, anno di inizio delle vendite del modello e il 1976, fine della carriera di un oggetto carismatico, ma soprattutto molto, molto presente nei ricordi dei motociclisti in zampa di elefante, Ray-Ban e, se andava bene, giubbotto di jeans. La H2 resta una pietra miliare nella storia della motocicletta, non fosse altro per l’aver raggiunto traguardi mai più sfiorati da altri modelli e costruttori (nel giro di pochi anni tutti abbandonarono i grossi plurifrazionati due tempi, salvo estemporanei casi di race-replica, ottimi, del resto) ma soprattutto per aver proposto una moto assolutamente viscerale, illogica, difficile; di quelle che scuotono l’anima di un motociclista. In realtà la Mach IV del pilota scuoteva ben bene anche il corpo, che fra vibrazioni, sbacchettamenti inattesi e serpeggiamenti vari, non godeva certo di un trattamento regale; ma i miti non sono mai perfetti e forse affascinano anche per questo. Dunque, nei primi anni Settanta, quando ancora le famigliole in gita fuori porta lasciavano i resti del picnic sulla riva del fiume, perché non usava raccoglierli, e la crisi petrolifera con la relativa austerity, era ancora da venire, alcuni dei difetti che oggi riscontriamo come tali della Kawasaki non erano nemmeno considerati. Del fumo già si è detto, il consumo smodato era solo un fastidio per le frequenti soste dal benzinaio e le vibrazioni, oggi difficili da digerire, erano serenamente condivise con qualche concorrente. Nella “guida all’acquisto” dedicata alle moto giapponesi (vedi In Moto n. 6/2012) citiamo tre modelli di Kawasaki in un legame stretto: la brillantissima 500 portò direttamente all’eclatante 750 che, una volta cambiato il mercato, portò alla completamente nuova Z1 900, che abbiamo visto su In Moto n. 1/2013. La filosofia Kawasaki sta rinchiusa in questi tre modelli, epocali e bellissimi. Attuale ancor oggi la bialbero 900, ma le illogiche, irrazionali e devastanti due tempi hanno un fascino terribile. La H2 è stata prodotta in quattro serie, in verità sempre meno interessanti, personali e prestazionali. Dal 1971 al 1976 è stata prodotta in poco meno di 50.000 esemplari, dei quali circa 1500 venduti in Italia; il numero risente evidentemente della concorrenza interna, a partire dal 1972, della Z1 900. Il motore tre cilindri raffreddato ad aria, due tempi, di 748 cm3, erogava 74 CV e consentiva alla leggera Mach IV di raggiungere i 200 km/h ma soprattutto di percorrere i 400 metri da fermo in 12 secondi, valore che ancor oggi è di tutto rispetto. Le sospensioni erano quello che in quegli anni passava il convento, senza infamia né lode, al pari dell’impianto frenante, con disco singolo davanti, doppio a richiesta e consigliato, e tamburo posteriore; il telaio in piccoli tubi faceva quel che poteva per gestire tutto l’insieme, e infatti la Kawasaki non è passata alla storia per eccelse doti stradali. L’esemplare nelle foto è una prima serie, disponibile nei colori oro oppure blu, con banda sul serbatoio; riteniamo che sia la più rappresentativa di tutta la famiglia; con le serie successive forse anche la Casa stessa credeva meno alla formula tre cilindri. ep2 Oggi, fermo restando le superiori doti stradali di svariate concorrenti, Moto Guzzi V7 Sport su tutte, si può anche dire che eravamo noi motociclisti italiani un po’ prevenuti nei confronti dei talenti della moto giapponese: con gomme e sospensioni in buono stato non era del tutto da disprezzare, l’ammortizzatore di sterzo dava un piccolo aiuto da non sottovalutare; i lugubri soprannomi che le furono riservati donavano l’aura di “cliente” difficile per i compagni di gita e sfida su strada, mentre i polsi “dell’occasionale” tremavano ancor prima di salirci sopra. Diciamo che era certamente una moto non amichevole e come tale era necessario che le parti fossero in perfetta forma, comprese quelle di chi la guidava, sentimento della saggezza in primis. La H2 ebbe anche la nomea di essere propensa al grippaggio del cilindro centrale e la cosa era vera solo se la moto era utilizzata malamente e con lubrificanti di scarsa qualità. Vere erano una discreta golosità di candele e una scarsa durata della catena di trasmissione; oggi questi piccoli problemi sono del tutto risolvibili. La H2 crea sempre un bel capannello di appassionati: la curiosità di quanto fumo farà all’avviamento e il richiamo irresistibile del suo squillante 3 cilindri fanno presa. Resta un discreto pezzo da collezione con quotazioni medio-alte fra le giapponesi classiche, a livello di una buona Honda CB 750, pur senza avere la stessa fruibilità. Ma mica sono moto che oggi si usano tutti i giorni! Si trova ancora qualche meccanico specializzato in grado di fornire anche i ricambi, non tutti facilmente reperibili e non a buon mercato, oltre a qualche club di appassionati in rete, fra i quali spicca il Club Giapponesi Classiche. ep3

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