Personaggi: Riccardo e Massimo Pierobon, famiglia da corsa

Personaggi: Riccardo e Massimo Pierobon, famiglia da corsa

L’affascinante storia di una piccola engineering bolognese a conduzione familiare, con tante idee, voglia di lavorare e numerosi aneddoti da raccontare...

Riccardo Piergentili

27.12.2016 13:13

Lo chiamano Ricky One (soprannome assegnatogli da Ben Bostrom) anche se all’anagrafe, nel 1934, fu registrato col nome di Riccardo. Fisico asciutto, una vita dedicata alle moto e allo sport. Occhi chiari, sguardo sempre vigile, cuore e spirito da ragazzino. Parlare con Riccardo Pierobon, il fondatore dell’engineering a conduzione familiare che collabora con diverse grandi Case motociclistiche, è innanzitutto una meravigliosa esperienza di vita. Ricky One è una persona genuina, uno di quelli che, con una semplicità disarmante, è in grado di farti capire quanto sono importanti la serietà, la professionalità, la voglia di fare e i sacrifici. È in grado di farti capire perché, partendo da zero, è riuscito a costruire un’azienda, che ora viene gestita dal figlio, Massimo. Nessuna agevolazione; solo lavoro, lavoro e lavoro. E voglia di faticare e di superare gli ostacoli. Questa è la ricetta per emergere e restare a galla. Ricky One non ha solo visto nascere il motociclismo moderno: lui ha addirittura contribuito a farlo crescere.

NON SERVE LA LAUREA - Ricky One non è un ingegnere ma ha realizzato i telai di numerose moto di serie e di altrettante moto da corsa. Ha vissuto da protagonista gli anni in cui, come lui sostiene, «A Bologna c’era una fabbrica di moto ogni cento metri». Ricky One è sempre stato un tecnico, un appassionato di quel fantastico mondo a due ruote che ha fatto sognare diverse generazioni. «Quando lavoravo in Verlicchi e andavo in Ducati con i miei capi, io mi dirigevo da Farnè, Bordi e Martini, per parlare di tecnica. I dirigenti, invece, si chiudevano negli uffici, per discutere di contratti e di soldi. Io dovevo risolvere i problemi tecnici. Non ero bravo a fare il politico. Ho sempre preferito lo sport alla politica. A volte mi arrabbio con mia moglie. Lei vorrebbe seguire le trasmissioni in cui quei signori in giacca e cravatta parlano dei problemi del Paese, mentre io preferisco gustarmi una gara di moto, di auto, una partita di calcio, un incontro di boxe, un meeting di atletica. Neppure i ministri sanno cosa devono fare... Figuriamoci cosa possiamo saperne noi!».

LEZIONI DI VITA - Entrando nella engineering di Pierobon pensavamo di parlare solo di progettazione, telai, forcelloni, eccetera. E lo abbiamo fatto. Ma le lezioni di tecnica sono passate in secondo piano rispetto a quelle di vita. A volte ci si chiede perché alcune aziende funzionano ed altre no. Le risposte le abbiamo trovate parlando con Ricky One... «Ho lavorato in Verlicchi per oltre 30 anni, sia nel reparto produzione sia in quello corse, che considero un po’ mio. Tanti anni fa c’era l’esigenza di realizzare componenti racing, che spesso erano costruiti con la sega e la lima! Ad esempio, quando arrivarono i primi bicilindrici, c’era l’esigenza di sincronizzare i carburatori. Io inventai un comando gas abbinato a un bilanciere, che permetteva ai carburatori di funzionare correttamente. Un sistema semplicissimo, però all’epoca nessuno ci aveva pensato».

LE ORIGINI IN VERLICCHI - Di fatto, quindi, l’azienda Pierobon nacque all’interno della Verlicchi, per poi diventare la realtà indipendente che tutti conosciamo. All’inizio l’engineering venne gestita solo da Ricky One, che andò in pensione nel 1987. In seguito, Massimo raccolse l’eredità del padre per portare avanti l’azienda di famiglia. Ricky One ormai si considera un pensionato con la voglia di pensare e disegnare qualcosa di nuovo nel tempo libero, perché «Invecchiando bisogna smettere di fare fatica fisica, ma non bisogna mai smettere di pensare». Anche se ha amato tanto le moto, il suo lavoro non gli manca, perché ha visto l’involuzione del mondo, della società, dell’Italia. Ricky One ha vissuto gli anni del boom economico e gli anni in cui tutti volevano diventare costruttori di moto. «A Bologna, partendo dalla vecchia funivia (oggi non esiste più, ndr) che portava a San Luca, in un tratto di due, massimo tre chilometri, c’erano ben diciotto aziende di moto! La Comet, la Berneg, l’SCM, tanto per citarne tre. Dal 1955 al 1970 tutti costruivano moto!».

LA GAVETTA SERVE - Ora sta osservando la recessione, secondo lui inevitabile, sia per colpa di chi ci governa, sia per colpa di chi vorrebbe lavorare senza fare la gavetta. «Purtroppo il mondo è cambiato, in peggio. E io posso dirlo perché sono nato presto... Quando lavoravo in Verlicchi tutti avevano un forte attaccamento all’azienda, che sapeva valorizzare il personale. Serviva uno strumento per terminare un lavoro? Si acquistava, senza dover fare troppa burocrazia. Non è mai mancato uno strumento di lavoro, perché la dirigenza sapeva che dietro una richiesta tecnica c’era una reale necessità. E tutti i dipendenti trattavano questi strumenti come fossero loro. C’era uno spirito di gruppo e si lavorava bene. Oggi, purtroppo, non è più così, anche perché mi sono accorto che è venuto meno il concetto di team. Spesso molti ingegneri non sono a conoscenza di ciò che avviene nell’ufficio accanto... ».

COMPUTER AL POSTO DEL TECNIGRAFO - Ricky One ha spiegato come è cambiato il lavoro di progettazione, che non ha portato solo vantaggi… «Il tecnigrafo è stato sostituito dai computer, la carta e la matita dai programmi di calcolo e dal mouse. I vantaggi sono molteplici, ma il rischio di perdere di vista l’obiettivo è elevato. Oggi non si può lavorare senza computer ma secondo me c’è il rischio di perdere inventiva. L’uomo e le sue idee restano alla base di ogni progetto e nessun programma può trovare le soluzioni ai problemi. Lavorando a compartimenti stagni e si è persa la visione d’insieme, che a mio avviso è fondamentale, soprattutto per realizzare una moto, un veicolo molto più complesso di quanto sembri. Insomma, non si può pretendere che una persona pensi per quattro ma neppure che quattro persone ragionino senza confrontarsi. Inoltre, quando lavoravo in Verlicchi mi ricordo che, sistematicamente, si facevano delle riunioni dove tutti venivano a conoscenza delle problematiche di tutti i reparti, se erano state risolte e come erano state risolte. Oggi, i programmi effettuano dei calcoli ma i dati vengono immessi dalle persone. I programmi stessi sono realizzati dalle persone. Insomma, i software eseguono degli ordini. È cambiato il sistema ma è sempre l’uomo il valore aggiunto. In Italia, purtroppo, non sempre questo concetto è chiaro. All’estero, in alcuni Paesi, sì. È per questo motivo che c’è una fuga di cervelli dall’Italia. Perché gli italiani, quelli bravi, quelli che sono capaci di lavorare bene e di risolvere problemi vanno dove vengono valorizzati».

DA RICCARDO A MASSIMO - L’engineering Pierobon è associata al marchio Ducati ed è facile spiegare il perché, secondo Massimo. «All’inizio degli anni ’90 Ducati era un’azienda ben strutturata, nel settore produzione, mentre il reparto corse non era evoluto come oggi, anzi, diciamo che era piuttosto piccolo e formato da un gruppo di ingegneri appassionati delle competizioni. Io ero giovanissimo, un bambino, ma percepivo la voglia di correre. Bisognava correre, c’era la voglia di confrontarsi con gli altri. Mio padre collaborava con quegli ingegneri, che lo ascoltavano. In quegli capii il valore di Ricky One e iniziai ad appassionarmi davvero alle moto e soprattutto alle corse». In quegli iniziò la svolta positiva di Ducati nelle corse e anche l’engineering di Pierobon cambiò passo. «La moto che ricordiamo con maggiore affetto è la Ducati 851, perché fu il modello che ci diede la possibilità di entrare davvero nel settore racing che contava. La nostra avventura, ma anche quella di Ducati, iniziò davvero da quella moto. Sono stati anni bellissimi, in cui noi andavamo spesso in Ducati e gli ingegneri della Ducati venivano spesso da noi. Si collaborava, c’era voglia di fare e in poco tempo le moto Ducati divennero il riferimento nel mondiale delle derivate dalla serie».

IL TELAIO A TRALICCIO IN TUBI D'ACCIAIO - Per Pierobon il telaio a traliccio in tubi è un credo, più che una soluzione tecnica. E per anni è risultato vincente. «Mio padre mi ha insegnato i segreti del telaio a traliccio, una soluzione funzionale e versatile. Lui mi diceva sempre di osservare i tralicci dell’alta tensione; sono costruiti utilizzando un traliccio composto da triangoli; una struttura semplice ma allo stesso tempo rigida. Ci sarebbero tanti dettagli di cui parlare... però, sintetizzando, posso dire che l’esperienza, soprattutto quella acquisita nelle corse, è fondamentale. Quando sai cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato e perché, puoi decidere cosa fare, puoi risolvere più in fretta i problemi ed è più difficile sbagliare strada quando parti da zero. Oggi lo chiamano know how».

X60R… NON SOLO ACCIAIO - Quando si parla di traliccio in tubi si pensa subito all’acciaio. Pierobon, però, crede anche nell’alluminio e la X60R, la moto che nasce all’interno della engineering bolognese, lo dimostra. «La X60R ha un telaio a traliccio in tubi di alluminio e monta il bicilindrico Ducati 1100 EVO raffreddato ad aria. Non è un mostro di potenza, se paragonato ai più recenti bicilindrici raffreddati a liquido ma nelle corse ci siamo tolti ugualmente tante soddisfazioni. Non produciamo tante moto ma non è un problema, perché l’obiettivo della X60R è dimostrare quello che sappiamo fare, ovvero una moto guidabile, divertente e soprattutto facile da montare. Questo è uno degli aspetti più importanti, ci tengo a sottolinearlo. Realizzare un buon prodotto è relativamente facile, se hai carta bianca. Invece costruire moto e ricambi caratterizzati da accoppiamenti perfetti è difficilissimo. Alcuni dei nostri clienti acquistano le moto in “scatola di montaggio” e sono in grado di portare a termine l’assemblaggio utilizzando il nostro manuale di istruzioni. Di questo vado particolarmente fiero».

UN CUORE DA CORSA - Il cuore di Massimo, come quello di Riccardo, batte per le corse, un mondo parallelo fatto di personaggi al di sopra delle righe e di situazioni limite, che poco o nulla hanno a che vedere con la vita “normale”. «Le corse sono le corse. Chi non ha mai vissuto le emozioni, gli stimoli, le tensioni e le avventure del paddock non può capire perché chi è cresciuto in circuito è un po’ naif. I piloti sono gente strana, devi essere un po’ psicologo e un po’ padre per capirli e per entrare in confidenza con loro. Nelle moto il pilota fa la differenza e bisogna ascoltarlo per capire la strada da prendere. Ma il mondo delle corse non è solo questo: è uno strano intreccio. Nel paddock ognuno vuole vincere, ma alla fine tutti sono sulla stessa barca. Oggi può servire un aiuto a me, domani potrebbe servire a te. Grazie agli insegnamenti di mio padre, io ho capito che bisogna lavorare onestamente. Mi ricordo che una volta aiutai un team giapponese a saldare una marmitta, perché avevano terminato i ricambi. Effettuammo la riparazione di nascosto, nel camion, e loro riuscirono a correre. Me ne furono sempre grati. A loro io avrei potuto chiedere aiuto, non mi avrebbero mai detto di no. Lo stesso discorso vale con i piloti. Ho un ottimo rapporto con Ben Bostrom, proprio perché con lui sono stato sempre sincero e ho lavorato con serietà, anche nei momenti difficili. Ecco, questi sono i piccoli segreti per vivere bene, professionalmente e personalmente».

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