La prima volta in America del Sud

La prima volta in America del Sud

Redazione - @InMoto_it

01.04.2013 ( Aggiornata il 01.04.2013 12:19 )

Dallo scooter in città alla sfida più impegnativa contro le volpi del deserto: un avvocato romano prossimo ai 50 anni trasforma in realtà il suo sogno di correre fra le Ande e il Pacifico 13049ts8 Ottomila chilometri fra Lima e Santiago, attraverso il Perù e l’Argentina per raggiungere il traguardo in Cile. Questa, oggi, è la Dakar: una maratona nata trentaquattro anni fa e che inizialmente partiva da Parigi per approdare fra i deserti africani. Per motivi politici e di sicurezza è stata trapiantata nel continente sudamericano da cinque edizioni, ma conserva il suo storico nome e, soprattutto, il suo fascino di gara capace di attrarre, ogni anno, centinaia di sfidanti: in moto, sul quad, in auto o con i giganteschi camion. Dalla sabbia all’oceano, dagli sterrati pietrosi alle insidie del fesh fesh (sabbia inconsistente come la polvere), la Dakar cela nel suo percorso tutte le difficoltà del fuoristrada, comprese le variazioni altimetriche: nelle speciali si passa da zero a 3.850 metri sul livello del mare e nei trasferimenti si arriva quasi a 5.000 metri per attraversare le Ande. Nelle lunghe prove cronometrate servono nervi saldi e sangue freddo per mantenere la concentrazione. Il sole cocente, la pioggia e le raffiche di vento, poi, sono variabili capaci di condizionare anche i campioni. Servono resistenza fisica e preparazione mentale, capacità tecniche e spirito d’avventura. Doti che si affinano gradualmente, con l’esperienza nelle competizioni minori. Alzi la mano chi se la sentirebbe di correre una Dakar avendo scoperto la moto da enduro soltanto cinque anni prima. Eppure succede: il fascino di questa estenuante maratona può calamitare anche chi gli sterrati li pratica da poco, o meglio, da troppo poco per affrontare ragionevolmente un’impresa del genere. Ma la passione, si sa, non ha niente da condividere con la ragione. Un campione per maestro Avviene così che un tranquillo professionista passi dal maxiscooter alle ruote artigliate e decida in breve di mettere nel suo obiettivo una Dakar. Schierarsi a fianco dei campioni del deserto: il sogno di moltissimi enduristi. Paolo Sabbatucci ce l’ha fatta, è partito da Lima e ha percorso sei giorni di gara insieme ai “grandi”. Si è fatto male alla seconda tappa, ha stretto i denti ed è andato avanti nascondendo ai medici quella che poi si è scoperto essere una frattura del malleolo peroneale. Poi è stato tradito dal cambio, ma non conta: gli inconvenienti tecnici fermano tutti ma mettono un po’ di pepe al bagaglio delle storie da raccontare. A dare un pizzico di sicurezza in più a Paolo Sabbatucci ha contribuito un “maestro” d’eccezione: Franco Picco, che lo ha preso in squadra con Franco Panigalli, Fabio Mauri e Igaris Gintautas. Franco Picco, del resto, è uno dei miti di questa corsa. Ha sfiorato la vittoria per due volte, chiudendo alle spalle di Edi Orioli nel 1988 e di Gilles Lalay l’anno dopo. Nel 2000 ha vinto in auto e dieci anni più tardi ha festeggiato le “nozze d’argento” con la Dakar conquistando la classe Marathon a 55 anni. Da qualche anno Franco Picco mette il suo talento a disposizione degli appassionati, e partecipa alla Dakar senza guardare alla classifica, ma accompagnando chi ha tanto coraggio da provare l’avventura delle competizioni. “La Dakar è come un tarlo...” - Cosa spinge un avvocato di 47 anni a fare armi e bagagli per la Dakar? Un approccio felice con le due ruote fin da bambino? «Il mio primo contatto con una moto non è stato un granché - racconta Paolo. - Avevo sette anni quando provai la piccola moto da cross di un mio amico. Tempo due minuti e finii contro una recinzione. Non faceva per me! Molti anni dopo ho preso un maxiscooter per girare in città, ma era un’esigenza dettata dal lavoro. Nel 2003 arriva la prima Harley-Davidson Electra Glide seguita da una più sportiva Nightster, da una BMW GS 1150 ADV e da una Honda Dominator. La vera passione l’ho scoperta però solo cinque anni fa, quando ho iniziato a praticare enduro con gli amici del Moto Club Roma. Mi hanno aiutato nella scelta della mia prima moto: io forse ne avrei comprata una da trial, tanto poco ne capivo! Nel 2008 ho fatto il mio primo viaggio nel deserto con Franco Picco. Ho visto la sabbia e sono caduto dopo un metro. Sono caduto altre decine di volte fino a capire con i consigli di Franco che per guidare sulla sabbia non devi chiudere mai il gas! Da quel momento pura goduria». - Perché proprio la Dakar? «Rappresenta il top, anche sotto il profilo dell’entusiasmo e del coinvolgimento. A me piace andare fino in fondo nelle cose che faccio, per questo una volta scoperto il fuoristrada era giocoforza partire per la maratona più impegnativa. La Dakar è un punto d’arrivo, un tarlo che ti viene nella testa, una sfida con te stesso, un modo per capire fin dove può arrivare il tuo spirito di sacrificio. Per settimane sono andato a dormire pensando a lei... alla Dakar. Continuavo a immaginare il giorno dello start, come controllare le emozioni della prima tappa, la posizione di guida, la velocità da tenere... E poi continuavo a comprare cose da portare, per dormire e mangiare al bivacco, con il timore di dimenticare qualcosa». - La Dakar è affascinante ma anche pericolosa. «La stampa non specializzata parla di noi come se fossimo gente allo sbando. Invece siamo consapevoli dei rischi, che secondo me sono anche minori di quelli che si corrono girando in scooter a Roma, dove la tua incolumità dipende da molte variabili». - Come hai affrontato la partenza? «Con tante emozioni. Il giorno prima ti prepari meticolosamente per stemperare l’adrenalina, metti gli adesivi sul casco, sulla giacca e sulla moto, decidi se devi portarti la macchina fotografica piuttosto che il portafogli, il kit di attrezzi e il cibo... Ti sembra di essere in ritardo su tutto. La mattina dopo, con la vestizione capisci che stai per partire. Ti senti bene perché sei lindo e pulito, anche se un quarto d’ora dopo avrai polvere e fango dappertutto. Poi entri al parco chiuso, vedi la moto e ti unisci a lei, che diventa la tua complice: deve avere forza e pazienza, perdonarti se sbagli. E non si deve rompere». - Com’è stata la prima tappa? «Dopo un lungo trasferimento abbiamo affrontato una speciale di 13 chilometri da fare tutta a manetta... ero molto emozionato, anche perché parti in mezzo a due ali di folla: mi sentivo osservato e avevo paura di cadere. La partenza era in cima a un rettilineo: ho guardato avanti e ho visto un drappello di persone. Mi sono chiesto il perché e quando ci sono arrivato l’ho scoperto: c’era il primo “saltino”. Così ho capito che dove il pubblico si assiepava c’erano punti difficili. Poiché avevo un numero molto alto, il 182, mi preoccupava l’idea di trovare i giorni successivi il percorso rovinato dal passaggio di chi mi precedeva. Anche la polvere mi dava pensiero, perché rende difficile i sorpassi. In quei primi 13 chilometri, senza voler rischiare troppo, sono quindi riuscito a risalire una trentina di posizioni. La notte al bivacco ho sentito di fare veramente parte della carovana della Dakar. Avevo addosso la soddisfazione di aver superato la prima giornata della gara di enduro più impegnativa al mondo». - E i giorni successivi? «La seconda e la terza tappa sono state durissime, lo ha detto anche Picco. Io però ho guidato in scioltezza, perché non mi sentivo più osservato. La seconda giornata ci ha immersi in un paesaggio sterminato di sabbia. Una speciale di 242 km fra le dune: faceva caldissimo e c’era anche il rischio di surriscaldare il motore. La distesa di sabbia era a tratti abbagliante: una vera sfida per gli occhi. Al quarantesimo chilometro della seconda tappa ho visto la moto incendiata dell’argentino Pablo Alejandro Busin. Era un tratto di barcane, dunette a mezzaluna in serie che richiedono molta attenzione perché arrivare con la velocità sbagliata o fuori ritmo provoca vibrazioni insopportabili e ti fa perdere il controllo della moto che si “imbarca”. E così ho focalizzato di nuovo la difficoltà della gara. In quella tappa sono caduto anche io: scendevo da una duna cassé resa ancora più impervia dal passaggio dei piloti che mi precedevano. Nel risalire ho dato gas in contropendenza e la moto ha fatto quello che in gergo si chiama un “trecentosessanta gradi”. Sono rimasto con la gamba incastrata sotto, ma sono riuscito a rialzarmi. Il piede sinistro mi faceva molto male e mi impediva di tirar su la moto. A un paio di centinaia di metri c’erano degli spettatori: mi sono sbracciato e sono venuti ad aiutarmi. Hanno fatto ripartire la moto e da lì in poi ho guidato come se avessi una gamba sola, tanto era il dolore. La sera avevo la caviglia gonfia e nera, ma non volevo farmi vedere dai dottori perché temevo che mi fermassero. Quando mi hanno visitato ho negato di avere qualsiasi tipo di fastidio e mi hanno fatto una fasciatura rigida che mi ha consentito di continuare. Di lì in poi ho pensato solo a guidare con prudenza, perché quando cadi vai in affanno, perdi sicurezza e tranquillità e ti ci vuole un bel po’ prima di riprendere il ritmo». 13049tou Nuvole di sabbia - Sei caduto altre volte? «Sì, una caduta che mi ha preoccupato è stata il quarto giorno. Era una speciale di circa 280 chilometri, che ad un certo punto prevedeva una discesa talmente ripida che quella di Iquique sembrava un gioco da ragazzi. Dopo un pezzo di salita sassosa, durissima per le braccia, mi trovavo su un tratto di fesh fesh quando il Sentinel ha cominciato a farsi sentire: segno che avevo un concorrente dietro di me. Era un camion. Mi ha sorpassato e ha sollevato tanta polvere che per due o tre minuti non ho visto più niente. Sono caduto, ho rialzato subito la moto ma ho temuto di essere centrato in pieno da qualche altro pilota. Per darvi un’idea della visibilità, vi posso solo dire che il sesto giorno di gara, al quarto chilometro è caduto il pilota lituano Igaris Gintautas, che era in squadra con noi. Io gli sono passato accanto pochi minuti dopo e non l’ho visto per il polverone che c’era. Lo svantaggio di partire dietro e di perdere terreno per un infortunio è che auto e camion ti raggiungono, massacrano il terreno e non sempre ti rispettano». - Hai subito qualche prepotenza? «Ero su una pista stretta, dove auto e moto insieme non possono passare. Dietro di me c’era una Mini che nel superarmi mi ha urtato sulla pedana e sullo stivale, facendomi cadere e continuando la sua gara. All’arrivo ho fatto reclamo, ma non è stato preso nessun provvedimento...» - Il tempo per guardare il paesaggio lo hai avuto? «Te lo prendi per forza, anche se sei concentrato in gara. La Dakar è bellissima anche per questo. Mi sono rimasti impressi una gola di sabbia con un fondo pietroso il secondo giorno, e poi la quarta tappa, quando siamo arrivati a lambire l’Oceano. È suggestivo perché i colori ocra del terreno arido si scontrano con il blu del mare. Ho visto dune da 1.500/2.000 metri, discese a perdifiato, deserti sterminati...» - Ma tu di tecnica te ne intendi? «Per niente... Sono partito con un bellissimo kit di attrezzi, ma in cuor mio speravo di non doverne mai fare uso. Picco dice che con una moto a iniezione si possono avere problemi per la sabbia e la qualità della benzina, mentre “la moto a carburatori la sistemi sempre”... Ma con le mie conoscenze tecniche questo discorso non valeva, così abbiamo rischiato scegliendo una moto a iniezione. Chi l’avrebbe detto che il problema sarebbe arrivato invece dal cambio! Alla sesta tappa, dopo un tratto impegnativo ero su un pianoro veloce quando ho sentito che qualcosa non andava... ho capito che era finita. Ma non me la sono presa con la moto, qualche giorno prima ero caduto io...». - Com’è stata la Dakar sotto il profilo della guida? «Ho trovato molti tratti tecnici e impegnativi fin dalla seconda tappa, con fesh fesh, sassi, buche... Non pensavo che si entrasse nel vivo delle difficoltà così repentinamente. Rappresenta tutte le tipologie di enduro estremo, con in più la difficoltà di speciali lunghe, che ti stancano fisicamente. E poi ci sono delle prove che non penseresti mai di superare. Nel mezzo di una speciale mi sono ritrovato in cima a un’enorme duna cassé. C’era il servizio medico, perché avevano appena portato via in elicottero due piloti caduti. Mi sono fermato a guardare cosa c’era dall’altra parte: una discesa ripidissima, tutta di sabbia, con un dislivello di ottocento metri. In montagna ci sono i tornanti, ma una duna cassé la puoi affrontare solo chiudendo gli occhi e buttandoti. Vietato frenare, persino rallentare, altrimenti la ruota anteriore si insabbia e ti cappotti. Due medici mi hanno consigliato di riposarmi e mangiare qualcosa prima di scendere. In questi casi devi vincere la paura: la razionalità ti dice che non si può procedere, ma se altri cento ci sono riusciti, significa che si può fare. Quando mi sono sentito pronto ho rimesso il casco e ho spalancato il gas. Mi sono ritrovato alla fine della duna con il cuore in gola e circondato da un gruppo di appassionati che mi acclamava come un campione. Chi mi dava pacche sulle spalle, chi mi offriva bevande energetiche, chi mi chiedeva un autografo o una foto... Ancora una volta mi sono sentito un pilota, di quelli autentici». - Stanchezza? «Tanta, anche perché prove simili consumano soprattutto a livello psicologico. Alla complessità delle speciali e al consumo dei liquidi devi aggiungere la fatica mentale. Anche perché io non sono un pilota professionista, mi emoziono ancora e a fine tappa mi sento svuotato. Per prepararmi faccio spinning due volte a settimana, pesi leggeri cinque volte e un paio di sessioni di aerobica. Picco mi ha consigliato il campo da cross, anche perché ti dà un riferimento cronometrico». La solidarietà - Qual è l’atmosfera che si respira al bivacco? «C’è molta solidarietà, anche se fra piloti, meccanici, medici e addetti ai lavori eravamo in tremila. E devi convivere con il rumore: gruppi elettrogeni, trapani, pistole pneumatiche, meccanici che provano... sempre, anche di notte. Il pubblico non può entrare, ma ti saluta attraverso le recinzioni. Ho avvertito una passione fortissima per i motori: i fan ti aspettano lungo il percorso e ci sono anche signore di sessant’anni che ti acclamano quando passi. C’è rispetto dell’abilità altrui, non invidia. E se vedi un pilota a terra, è un problema anche tuo. Il motto è “aiuta il prossimo fino al punto in cui non pregiudica il tuo arrivo al campo”. Così io ho regalato i miei guanti all’olandese Offringe, che alla quarta tappa era distrutto dalla stanchezza e aveva perso i suoi. Un’altra volta, mentre ero in speciale nel fesh fesh ho visto cadere un pilota greco dopo che un camion l’aveva sorpassato. Ho aspettato che ripartisse e siamo andati avanti insieme, ma poi si è fermato per un guasto tecnico. Mi ha detto: “È finita, vai”. Ma se il problema fosse stato risolvibile non lo avrei lasciato». - Cosa si fa dopo una Dakar? «Un’altra Dakar. Parteciperò anche a qualche motorally per acquisire dimestichezza con altri terreni, ma l’obiettivo è portare la regina delle gare nel deserto». 13049tui

  • Link copiato

Commenti

InMoto in abbonamento