Alessandro Botturi, l'intervista "umana"

Alessandro Botturi, l'intervista "umana"

Sul numero di aprile di InMoto, in edicola in questi giorni, abbiamo chiesto al campione fuoristrada il suo punto di vista esperto e privilegiato sui grandi raid africani e americani, attraverso un'intervista incentrata sullo sport. Di seguito, invece, il lato più personale di uno dei simboli del nostro motociclismo degli ultimi 20 anni

Federico Porrozzi

26.03.2019 14:45

Quando lo incontriamo, a pochi chilometri dalla sua Lumezzane (centro industriale lombardo di 22.000 anime immerso nella Val Trompia) ha appena finito un allenamento in bici di un centinaio di chilometri e una sessione di pesi in palestra. A 43 anni, Alessandro Botturi non ha nessuna intenzione di "rallentare" e appendere il casco al chiodo. Lo capiamo bene, poco dopo, davanti a una pizza ricca di carboidrati utili per la preparazione fisica, mentre ci racconta dei suoi ottimi risultati nelle gare di mountain bike e delle prossime sfide nel deserto in sella alla sua Yamaha. Di queste ultime, della differenza tra i raid in Africa e in America e degli ultimi successi (come la vittoria dell' Africa Eco Race 2019), ne parliamo in un'intervista pubblicata sul numero di aprile di InMoto in edicola in questi giorni. 
Quello che seguirà è uno spaccato del "Bottu" poco pilota e molto uomo. Il lato personale del campione. Uscito fuori, non a caso, durante una chiacchierata fatta intorno al tavolo di casa della mamma scomparsa da pochi mesi e alla quale Alessandro era fortemente legato. Una casa diventata negli anni il "quartier generale" del figlio-campione, piena zeppa di coppe, trofei e ricordi di una carriera importante.

- Come ti prepari fisicamente a rally come l'Africa Eco Race o la Dakar?
"La preparazione è diversa rispetto all'enduro. In quest'ultima specialità è necessario avere un feeling particolare con la moto perché ti giochi il risultato in pochi secondi mentre nei rally devi riuscire soprattutto a capire il ritmo che puoi tenere per 400 km e 5 o 6 ore di guida. Devi avere resistenza ed essere al top fisicamente: io percorro 6000 km in mountain bike durante l'anno, ma faccio anche palestra e un po' di motorally. Se non sei abituato a queste gare, il primo anno ti frega la tensione, perché passare da una speciale di 15 minuti a 6 ore di gara, mantenendo il corpo il più rilassato possibile, non è facile. La gestione è fondamentale, non puoi partire a tutta perché poi durante la seconda settimana rischi di calare fisicamente. In tanti cadono e si ritirano perché il fisico ne risente e si abbassa anche il livello di concentrazione. Sei sempre in tiro e quando arriva la stanchezza non vedi i pericoli... e voli via".

- Sembra diverso anche l'approccio umano, tra enduro e rally.
"Nel mondo dei rally c'è tanta umanità. Ho corso nell'enduro fino al 2011 ed ero un'altra persona: mi allenavo e correvo, il mio mondo ruotava tutto intorno a questi due aspetti e fare altro mi pesava molto. Da quando sono passato ai rally sono cambiato: dedico il mio tempo anche agli altri, per esempio alla mototerapia con i bambini del reparto di oncologia pediatrica gestito dal Dottor Porta, all'ospedale di Brescia. Adesso sono contento, sereno e realizzato, mi piace stare in questo mondo perché mi arricchisce, ha aperto il mio orizzonte e ha cambiato la mia mentalità". 

- Come passi il tempo, mentalmente, mentre fai allenamenti così lunghi?
"Esco parecchio in bici ma mi il mio obiettivo è dosare le forze, controllandomi per abituare la testa a gestire gli sforzi. Se devo affrontare una salita di 10 km, mi concentro sulle pedalate, circa 70 al minuto, e penso solo a quelle".

- E in gara, quando sei in moto per 6 ore al giorno, a cosa pensi?
"Se parti davanti, devi aprire il tracciato e non hai riferimenti, sei concentrato sempre e solo su quello. Devi guardare lontano e riuscire a disegnare mentalmente una linea il più retta possibile, prima di affrontarla. Non puoi correggere sempre la traiettoria, andando a zig zag e non puoi agitarti. Se prendi un riferimento ti concentri su quello. Finito un pezzo impegnativo, magari hai 15 km di sterrato facile e allora si, inizio a pensare. Soprattutto al passato, a cosa ho fatto nella mia vita. Penso agli amici che non ci sono più e ai momenti belli che abbiamo passato insieme".

- Non soffri di solitudine quando sei in mezzo al deserto?
"No, anzi. Provo un grande senso di libertà. Soffro molto il chiuso, in ascensore entro a fatica, sono claustrofobico. Nel deserto mi sento un leone, mi sento all'interno del mio ambiente". 

- Ti capita, nei momenti difficili o in quelli belli, di parlare con la tua Yamaha?
"No, mai. Alla fine è un mezzo che mi fa divertire ma non la umanizzo. Anche perché durante la carriera mi è capitato di cambiare tante moto e non ho dato loro un'anima. Mi piace molto prepararle, trovare la giusta posizione in sella, regolare la frenata e tutto ciò che mi permette di utilizzarle al meglio ma non mi affeziono mai". 

- C'è stata una tua moto preferita?
"Mi piace da matti guidare ma non sono legato alla moto. Se devo fare una gita lunga, è indifferente per me salire su una Superténéré o su una MT07. L'importante è andare. Una delle ultime moto che ho guidato con gusto è stata la Ténéré 700 perché ho avuto la fortuna di provarla per molti chilometri all'Hardalpitour. Non ho contribuito alla sua realizzazione ma in futuro mi piacerebbe dedicarmi allo sviluppo dei nuovi prodotti. Moto, abbigliamento o accessori che siano".

- Qual è, secondo te, il segreto del successo delle enduro stradali sul mercato?
"Sono per tutti. Con le limitazioni di velocità del codice della strada, quelle strutturali e di comfort, perché dovresti comprarti una supersportiva? Una on-off è una moto a 360 gradi e in molti possono permettersela: anche chi la sognava da ragazzo e adesso vuole iniziare a divertirsi a 40 anni. Sono perfette per gli sterrati facili, per andare in ufficio o per le gite con le mogli. Sono il il presente e sopratutto il futuro".

 - A proposito del futuro, cosa pensi dell'elettrico nel fuoristrada?
"Stiamo andando verso quella direzione anche in campo motociclistico, purtroppo. Dico così perché io sono figlio dei 2 tempi: l'Aprilia RX, la Tuareg... quanti ricordi! Compravo i getti, il carburatore maggiorato, la marmitta a espansione grazie ai soldi dei miei genitori, ai quali raccontavo la bugia che i vigili mi fermavano per dirmi che la mia, originale, era ormai usurata e da sostituire. Senza rumore e senza odorini, in futuro mi salirà una botta di malinconia".

- Prima di diventare pilota hai giocato a rugby ad alti livelli. Quanto ti sono serviti gli scontri in campo, nella tua carriera motociclistica?
"Le botte prese in passato mi hanno aiutato molto. Io ero abituato a darle e a prenderle sul campo e ma poi uscivo ed ero pronto per una birra da bere tutti insieme. Anche negli allenamenti, divisi in due squadre, capitava di alzare le mani con un compagno ma la cosa iniziava e finiva lì, in quel quadrato. Tanti miei avversari nelle moto non mi hanno capito, all'inizio: se arrivavo primo o secondo, scherzavo indifferentemente con chi mi aveva preceduto e con chi mi era finito alle spalle: in molti pensavano che li prendessi in giro e a volte neanche mi guardavano. Ci ho messo un po' a fargli capire che ero fatto così". 

- Cosa ti ha insegnato, il rugby?
"A riderci su, sempre. Se ti va male una gara e quando finisci ci rimugini troppo sopra, non fa bene ne a te ne a chi ti sta intorno. Il rugby mi ha insegnato a staccare subito e a trovare sempre l'aspetto positivo di ogni cosa che faccio, anche se si rivela negativa. Un esempio? Quando salivo su moto considerata "scarsa", non mi facevo influenzare dalle parole di chi l'aveva guidata prima o dei detrattori: per me era la migliore del mondo e cercavo di mettermela a posto e andare il più forte possibile". 

- A Lumezzane, patria del fuoristrada, ti considerano un idolo...
"Dopo oltre 20 anni di carriera tra enduro e rally, con i risultati che ho ottenuto, sono diventato un po' un personaggio. Ma questa è terra di passione per le due ruote ed è stato molto facile entrare nel cuore della gente. Davanti casa mia passarono la Sei Giorni del 1997, il mondiale del 1990 e tante altre gare importanti. Io rimanevo ore a veder sfilare tutti quei campioni, con la mia bandierina ben stretta in mano. A 15 anni, i miei mi hanno regalato il primo motorino mentre a 16 ero il ragazzo più felice del mondo con la mia YZ 125 rosa. A quei tempi, qui a Lumezzane, i giovani sognavano solo la moto da cross o da enduro. Tutti i miei amici ne avevano una e ognuno di noi comprava un modello di una Casa diversa: io avevo la Yamaha, Giorgio la Kawasaki, Mario la KTM, Flavio che abitava qui di fronte la Honda, Poldo la KTM... sono stati anni fantastici".

Alessandro Botturi in azione - FOTO

Alessandro Botturi in azione - FOTO

Una selezione delle immagini più spettacolari del campione italiano più famoso dei grandi rally raid sul deserto e vincitore dell'Africa Eco Race 2019

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- Cosa ti è mancato, finora?
"Niente, sto avendo una carriera bellissima e sono riuscito a vincere e a salire sul podio in specialità differenti e lontane l'una dall'altra. Anche grazie al fatto che quando finisce un capitolo, mi concentro solo ed esclusivamente su una nuova avventura. Tanti miei avversari che hanno vinto molto solo in una, poi non sono riusciti a replicare nelle altre e questo è un motivo di grande soddisfazione per me".

 

BIOGRAFIA
Nome: Alessandro
Cognome: Botturi
Data di nascita: 12/7/1975
Luogo di nascita: Brescia
Famiglia: sposato con Loredana, padre di Giorgio e Daniele 
Prima gara disputata: 1992, Cerete (VR)
Palmares: 9 titoli italiani enduro, 2 Sei Giorni a squadre, 2 Sardegna Rally, Africa Eco Race, Transanatolia, Merzouga, podi al Superenduro e Hell's Gate
Hobby: moto e ciclismo
Musica preferita: Jovanotti, Ligabue, Vasco Rossi
Piatto preferito: lasagne
Sogno: già realizzato, correre in moto da professionista

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