Avete mai sentito parlare degli ATC? L&#39;acronimo sta per &quot;All Terrain Cycle&quot; e fu coniato dalla Honda che immise sul mercato statunitense in grandi numeri il primo di questi strani mezzi, l&#39;UC90, poi evoluto in ATC con diverse versioni e cilindrate. Non erano altro che motociclette da fuoristrada dotate di larghissime ruote dal diametro ridotto ma dalla sezione ampia, adatte ad affrontare i terreni sabbiosi.  Tre ruote, zero sospensioni e gommazze  L&#39;altra particolarit&agrave; era che le ruote, da due sono diventate tre, grazie al forcellone collegato ad un asse posteriore rigido che permetteva al mezzo di avere pi&ugrave; trazione fra le dune ma impossibilitandolo a piegare. Chi ha iniziato a usare questi mezzi ha dunque imparato a guidare in maniera &quot;diversa&quot; con uno stile molto fisico che poi negli anni seguenti si &egrave; evoluto in quello che &egrave; il mondo dei quad, che di ruote ne hanno quattro.&nbsp;  Il primo &quot;quad a tre ruote&quot; in senso assoluto fu lo Sperry-Rand Tricart. Venne progettato nel 1967. Tricart non si guidava a cavalcioni ma ci si sedeva come su un kart. Nel 1968 Plessinger vendette i brevetti e i diritti di progettazione del Tricart alla New Holland che inizi&ograve; a produrli commercialmente.&nbsp;    &nbsp;  La diffusione e la moda grazie a Honda    Da qui nacque l&#39;interesse di Honda che introdusse il suo primo ATC nel 1970, l&#39;US90 (senza ammortizzatori), diventato in breve famoso grazie alle comparsate al cinema con James Bond e in TV con Magnum P.I. Nel 1973, Honda registr&ograve; dunque il marchio &quot;All Terrain Cycle&quot; (ATC), applicandolo a tutti i tre ruote da spiaggia realizzati da quel momento in poi.  La Casa giapponese svilupp&ograve; negli anni &#39;80 una sorta di monopolio sul mercato, grazie a brevetti efficaci sul design e sulla posizione del motore. Entro il 1980, altre aziende pagavano royalty brevettuali a Honda per entrare nel settore degli ATC con i propri modelli. Yamaha realizz&ograve; lo YZ125 Tri-Moto, Kawasaki fece altrettanto l&#39;anno successivo con il KLT200, mentre Suzuki produsse il suo primo modello, l&#39;ALT125, nel 1982.  Man mano che la popolarit&agrave; degli ATC aumentava, si sviluppavano anche soluzioni tecniche innovative e prestazioni pi&ugrave; elevate. La capacit&agrave; di andare dove la maggior parte degli altri veicoli non potevano presto li rese popolari tra i cacciatori statunitensi e canadesi, ma anche fra i bagnini delle spiagge di California e Florida. Comparvero anche competizioni off-road dedicate ai tre ruote e versioni stradali sportive come l&#39;ATC250R.    &nbsp;  All&#39;apice del successo, lo scandalo sicurezza    Una ulteriore rivoluzione arriv&ograve; nel 1982 con l&#39;Honda ATC200E Big Red, che grazie a portapacchi e sospensioni finalmente efficienti, divenne a tutti gli effetti il primo mezzo utilitario di questa tipologia e il primo vero capostipite dei quad da lavoro.&nbsp;  A met&agrave; degli anni &#39;80, per&ograve;, la popolarit&agrave; di questi mezzi ricreazionali cominci&ograve; a scricchiolare. Dopo numerose denunce arrivate alle Case costruttrici e una serie di inchieste giornalistiche, negli Stati Uniti si decise di catalogare gli incidenti mortali causati dai tre ruote e il risultato sconvolse un po&#39; tutti.&nbsp;  Nel 1987 il senior managing director of the Honda Motor Co fu portato in tribunale e non riusc&igrave; a trattenere le lacrime quando gli fu messa davanti una lista di 789 nomi di persone decedute a seguito di incidenti con gli ATC (non solo Honda), la met&agrave; dei quali bambini e minori.  Era usanza, in quegli anni, utilizzare questi mezzi in terreni privati e spesso lo si faceva con tutta la famiglia e senza protezioni. Il vero problema era l&#39;instabilit&agrave; causata dalla singola ruota anteriore che - specialmente in pendenza - rendeva il mezzo difficile da governare e molto facile da ribaltare. Considerando che un ATC pesava in media sui 160 kg, &egrave; semplice capire il numero di persone morte perch&egrave; schiacciate dal mezzo. In primis fu amentata la sensibilizzazione con corsi di guida, ma i continui incidenti portarono a breve a una sospensione della produzione.    &nbsp;  Troppo pericoloso, troppi morti  Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti viet&ograve; ufficialmente le vendite di ATC nel 1987, costringendo i produttori a sostenere una campagna sulla sicurezza da 100 milioni di dollari e il riacquisto di tutti i tricicli da spiaggia invenduti che i concessionari avevano ancora in stock.  Un articolo del New York Times del 1988 afferma che gli ATV sono stati la causa di quasi 1.000 morti e 300.000 feriti tra il 1983 e il 1988, e un articolo del Time Magazine dello stesso anno conferma che quasi 7.000 persone all&#39;anno venivano coinvolte in incidenti con questi mezzi. Il resto &egrave; storia, perch&egrave; il fenomeno si trasform&ograve; in quelli che oggi &egrave; il mondo dei quad con quattro ruote, pi&ugrave; stabili e molto meno pericolosi.    Esiste la moto perfetta e come potrebbe essere? 

Tragli anni &#39;70 e &#39;80 negli Stati Uniti &egrave; scoppiata la moda delle moto pensate per andare sulla sabbia e su qualsiasi altro terreno. Peccato che, oltre ad essere divertenti, erano anche tremendamente pericolose&nbsp;

Gli ATC a tre ruote: da moto da spiaggia a macchine letali

L&rsquo;Italia &egrave; spesso considerata il &ldquo;centro di gravit&agrave;&rdquo; della cultura motociclistica europea, con una passione profonda per tutto ci&ograve; che &egrave; a due ruote. Ecco perch&eacute; Honda gestisce due centri importanti nel Bel Paese, dedicati esclusivamente a moto e scooter:    uno studio di design che lavora nel centro di ricerca e sviluppo a Roma  una fabbrica all&#39;avanguardia situata ad Atessa (Chieti) sulla bellissima costa adriatica.   &Egrave; qui che si scopre cosa vogliono davvero i clienti da un modello Honda. &Egrave; qui che si creano le nuove tendenze con l&rsquo;innovazione stilistica e ingegneristica, dove lo stile e l&#39;estro italiano si combinano con l&#39;ingegneria di precisione giapponese, sfruttando un flusso continuo di idee e apprendimento in entrambe le direzioni.  I progetti dell&#39;Africa Twin sono stati guidati dal team di ricerca e sviluppo di Roma, cos&igrave; come tutta la gamma delle naked Neo Sports Caf&eacute; o l&#39;esclusivo X-ADV. Anche il look della Sport Tourer NT1100 &egrave; stato concepito in Italia, cos&igrave; come quelli della CB750 Hornet e dell&#39;avventurosa XL750 Transalp. L&rsquo;Italian Connection &egrave; un concetto estremamente importante per la Casa giapponese, ma vediamo bene perch&eacute;.  Pi&ugrave; di 50 anni di storia    Honda Italia Industriale S.p.A. &egrave; stata fondata nel 1971. La prima moto che ha lasciato lo stabilimento di Atessa &egrave; stata la CB125E. Poi, nel 1985, la NS125R Adriatico fu il primo modello prodotto nello stabilimento ad essere esportato in Giappone. Nel 1996 lo stabilimento &egrave; raddoppiato di dimensioni, e oggi si estende su una superficie di circa 140.000 mq. Alcuni dei modelli pi&ugrave; popolari in Europa: SH125i, SH150i e SH350i, Forza 125 e 350 sono prodotti ad Atessa. Cos&igrave; come lo scooter ADV350 caratterizzato dallo spirito Adventure. Nel 2021 Honda Italia ha festeggiato i suoi primi 50 anni di storia ed &egrave; pronta a fare sempre meglio in futuro.  Come si producono moto e scooter?    Quando un nuovo modello &ndash; l&#39;ultimo &egrave; l&#39;ADV350 &ndash; esce dalla catena di montaggio &egrave; sempre un momento di orgoglio per il team di Atessa. &Egrave; il culmine dell&#39;impegno, del sacrificio e della passione. Una volta creato un nuovo prototipo di modello, un team di Atessa viene invitato in Giappone per un confronto. I dialoghi con gli ingegneri e i progettisti giapponesi sono approfonditi e minuziosi. Vengono prese decisioni in ogni fase relativa alle prestazioni, alla maneggevolezza, al livello di attrezzature necessarie e alla conseguente produzione, attingendo al vasto bagaglio di conoscenza ed esperienza che entrambi i team possiedono.  La pre-produzione avviene in pi&ugrave; fasi, a distanza di alcuni mesi l&rsquo;una dall&rsquo;altra. In ogni fase, il modello viene testato e migliorato. L&#39;intero staff di Honda Italia si riunisce con l&#39;obiettivo di ottimizzare completamente ogni dettaglio, anche il pi&ugrave; piccolo. E questo desiderio di migliorare nasce dalla genuina conoscenza e competenza del personale italiano. Loro sono il fattore decisivo nella realizzazione di un processo che si ripete giorno dopo giorno, componente per componente.  Il processo di produzione: la pressofusione    Viene utilizzata, poi, una tecnologia all&#39;avanguardia: la pressofusione, la quale consente la complessa produzione di componenti singoli. Le leghe di alluminio vengono fuse in stampi di acciaio (gli impianti B&uuml;hler sono due, da 840 e 1050 tonnellate), e consentono lo stampaggio di componenti di piccole e grandi dimensioni, ogni processo &egrave; monitorato durante la produzione e ogni componente &egrave; tracciabile. Al termine del processo subentra il Reparto Lavorazione Meccanica. A seconda dell&#39;uso, i componenti vengono forati, alesati, maschiati, torniti, rettificati e assemblati. Parliamo di forcelloni, portapacchi posteriori, maniglie per passeggero e supporti per carenature. Il controllo della qualit&agrave; &egrave; garantito da tecniche di misurazione avanzate e personale altamente qualificato.    Assemblaggio del motore: icarter, le teste dei cilindri, gli alberi motore e i cilindri vengono assemblati insieme ad altri componenti. Avvitatori elettrici con controllo di coppia contribuiscono a garantire che tutti i motori siano conformi agli standard di qualit&agrave; e di omologazione. Le unit&agrave; di controllo elettroniche garantiscono l&#39;accuratezza della costruzione di ogni motore e tutti i dati vengono memorizzati. La linea di assemblaggio del motore &egrave; composta da tecnici specializzati e il processo di produzione viene costantemente valutato per apportare miglioramenti. Ogni motore viene testato e ricontrollato prima di passare alla linea di produzione finale.  Saldatura: i telai in acciaio e i serbatoi di carburante sono prodotti da una combinazione di robot autonomi programmati da operatori esperti. Ogni operatore svolge un ruolo attivo durante il processo di ispezione, controllo e verifica. Vengono utilizzate tecniche di saldatura MAG (Metal Active Gas), TIG (Tungsten Inert Gas), a punti, a brasatura e a resistenza continua. Tutti i telai sono sottoposti ad ulteriori lavorazioni meccaniche e calibrazioni prima di ricevere un ultimo trattamento di finitura.  Verniciatura: Tre sottosezioni si occupano del processo di verniciatura per la finitura di plastica, acciaio e alluminio. Le applicazioni includono verniciatura a spruzzo &quot;standard&quot;, elettrostatica ed elettrodeposizione, a seconda del materiale da verniciare. E c&#39;&egrave; sempre abilit&agrave; umana, dalla preparazione alla rifinitura, per ottenere il massimo controllo della qualit&agrave;.     L&#39;ultima novit&agrave;: ADV350  L&rsquo;ADV350 &egrave; stato presentato nel 2021 e si &egrave; subito notato per il suo robusto design, alle sospensioni a lunga corsa, alla posizione di guida eretta e ai pneumatici con battistrada semi-tassellato. L&#39;altezza del cupolino si regola su 3 posizioni e il comfort e lo spazio sono pensati per due persone. C&#39;&egrave; spazio per due caschi integrali sotto la sella e nel vano portaoggetti anteriore &egrave; presente la presa USB-C.  Il sistema Honda Smartphone Voice Control mantiene il pilota connesso con il proprio smartphone attraverso il cruscotto LCD. L&#39;ADV350 &egrave; costruito per garantire comfort e sicurezza su tutti i tipi di terreno e il suo look &egrave; stato disegnato dai giovani designer di Honda R&amp;D Roma. &Egrave; l&#39;ultimo successo - tutto italiano - di una ricca gamma di prodotti a due ruote di Honda. Tutto grazie all&#39;Italian Connection.    HONDA CBR600RR, A SUZUKA DEBUTTA IL MY 2024  &nbsp; 

Passione, conoscenza e competenza incontrano l&rsquo;ingegneria di precisione. Il racconto dello stretto legame tra la fabbrica Atessa in Abruzzo, il centro di design dell&rsquo;R&amp;D di Roma e la Casa Madre

Honda, &ldquo;The Italian Connection&rdquo;: l&#39;asse Italia-Giappone in nome dell&#39;eccellenza

        Nel 1983 venivano eletti il nuovo Presidente della Repubblica Sandro Pertini e il nuovo Presidente del Consiglio Bettino Craxi, nel mentre a Cape Canaveral veniva presentata la rivoluzionaria Fiat Uno e nelle radio non smetteva di giriare "L'Italiano" di Toto Cutugno. Nel mentre dagli stabilimenti Yamaha di Iwata, arriva una versione della XT dedicata alle grandi traversate per celebrare le vittorie di Cyril Neveu alla Parigi-Dakar, denominata T&eacute;n&eacute;r&eacute;.&nbsp;Il nome arriva dalla lingua Tuareg, significa Deserto, e la prima a portare questo "nomignolo" &egrave; una XT 600 con serbatoio maggiorato, freni rivisti e un boost di potenza al monocilindrico da 40 a 45 cavalli grazie all'adozione del raffreddamento misto aria/olio.&nbsp; Dal 1983 al 1993  Grazie al successo, T&eacute;n&eacute;r&eacute; venne percepito come un vero e proprio modello, cos&igrave; negli anni a seguire fu sempre pi&ugrave; riconosciuta con il semplice appellativo che convinse Iwata ad adottarlo come nome proprio del modello.&nbsp;E' nel 1988 che cambiano un po' i connotati, perch&egrave; da enduro con il serbatoio grosso si passa ad un'estetica con cupolino fisso, doppio faro anteriore e grande protezione aerodinamica.&nbsp; Questo &egrave; lo stile delle "dakariane" che hanno avuto pi&ugrave; successo a cavallo dei '90&nbsp;bench&egrave; sotto le carene si tratti solo di una naturale evoluzione del progetto monocilindrico originario.&nbsp;Nel 1991 la cilindrata crebbe fino a 660 e l'estetica cambi&ograve; ancora, diventando un po' pi&ugrave; stradale e tornando al monofaro anteriore. Anche il serbatoio si ridimension&ograve; e perdette un po' di quello spirito avventuroso proprio delle versioni precedenti. Rimase comunque un modello apprezzato ma le vendite iniziavano a calare. Nell'89 ha debuttato anche la versione SuperT&eacute;n&eacute;r&eacute; 750 con motore bicilindrico.  &nbsp; Dal 1993 al 2003 Nel 1994 non venne rivoluzionato il modello 660 ma venne attuato un restyling (progetto 4MY) con doppio faro tondo, molto simile a quello del SuperT&eacute;n&eacute;r&eacute; XTZ-750 che nel mentre diventava il riferimento della serie. Nel frattempo alla Parigi-Dakar Yamaha stava scrivendo la storia con Stephan Petheransel e le sue 6 vittorie con la YZE 850T, derivata dalla SuperT&eacute;n&eacute;r&eacute;.  Sul mercato, per&ograve;, le cose andavano diversamente: gli appassionati stavano spostando l'attezione dalle moto tuttoterreno verso l'esplosione di nuovi segmenti stradali come quelli delle sportive e delle nude, un cambio rapido di gusti che nonostante il dominio nelle competizioni ha portato un calo di apprezzamento delle T&eacute;n&eacute;r&eacute; di serie che vennero tolte dal mercato nel 1998 sia nella versione 660 che 750, in concomitanza con il ritiro della squadra Yamaha dal raid africano per via dei nuovi regolamenti.  &nbsp; Dal 2003 al 2013  La T&eacute;n&eacute;r&eacute;, pur non comparendo pi&ugrave; nei listini, rimase nel cuore degli appassionati e nei piani futuri dell'azienda, che decise di aspettare fino al 2006 per riportare il nome in una moto di serie. Con un motore derivato dalla precedente monocilindrico, la nuova XT 660 Z T&eacute;n&eacute;r&eacute; era derivata dalla rinnovata serie XT, che a sua volta riprendeva il motore storico della T&eacute;n&eacute;r&eacute; 660 con i dovuti aggiornamenti. La nuova generazione mette una grossa separazione rispetto al passato, con un'estetica molto ispirata alle dakariane moderne ma mantenendo la coerenza con il carattere da globetrotter delle precedenti versioni. A differenza delle precedenti, la nuova T&eacute;n&eacute;r&eacute; era un prodotto di nicchia, dedicato a una fascia di utenza un po' fuori moda che non rappresentava pi&ugrave; il cuore delle vendite per Yamaha. Il nome T&eacute;n&eacute;r&eacute; rimase unicamente su questo modello fino al 2010, quando fu presentata anche la XT 1200 Z SuperT&eacute;n&eacute;r&eacute;, grossa bicilindrica parallela dedicata al turismo e rivale dell'ormai esplosa moda della BMW R1200 GS.&nbsp;  &nbsp; Dal 2013 al 2023 L'ultimo decennio ha visto due fasi importanti, con la serie 660-1200 che non ha mai fatto breccia nel cuore dei globetrotter pi&ugrave; puri, pur rimanendo ottimi mezzi orientati al turismo tuttoterreno. La 660 venne ritirata dai listini nel 2016 con pochi successi ma con uno zoccolo duro di veri appassionati che ancora la trattano come un "cult". La SuperT&eacute;n&eacute;r&eacute; 1200 invece &egrave; durata fino al 2020, e pur essendo un'ottima turistica (soprattutto nella versione ZE del 2016) non ha fatto breccia fra gli appassionati dei viaggi.&nbsp; La T&eacute;n&eacute;r&eacute; 700 che &egrave; diventata uno dei modelli pi&ugrave; apprezzati degli ultimi anni ha ancora una volta rivoluzionato il concetto, unendo le caratteristiche della 660 (capacit&agrave; in off e cilindrata media) e della 1200 (motore bicilindrico e potenzialit&agrave; turistiche) in un unico mezzo che ha fatto centro, anche grazie al look da vera dakariana. E con il 2023 sono 40 anni che il nome in lingua Tuareg &egrave; in giro per le nostre strade asfaltate e non, con un futuro ancora tutto da scrivere e un successo potenzialmente infinito che &egrave; destinato a rinnovarsi anno dopo anno con nuovi concetti e idee. Ormai tutto quello che &egrave; T&eacute;n&eacute;r&eacute; &egrave; leggenda, e lo sar&agrave; di sicuro per molto tempo ancora.  Yamaha festeggia i 40 anni della T&eacute;n&eacute;r&eacute; con un grande evento       

Non sono molte le moto che possono vantare una vita cos&igrave; lunga. Dal 1983 al 2023 tutti i modelli che hanno decretato il successo della avventurosa on-off di Iwata

Yamaha Ténéré: 40 anni di una leggenda

La storia della moto pi&ugrave; veloce del ventesimo secolo non comincia nell&#39;anno del debutto, ma nel 1996, quando Honda immise sul mercato la CBR 1100 XX, moto studiata per fendere l&#39;aria e spostare il pilota a velocit&agrave; folli senza batter ciglio. Si tratta di una sport tourer grossa, lunga e pi&ugrave; capace di andare dritta che in curva, ma il fascino che emana &egrave; incredibile. Le viene affidato il soprannome Blackbird, in riferimento all&#39;SR-71 Blackbird della Lockheed Martin, l&#39;aereo pi&ugrave; veloce mai realizzato. In effetti la sua velocit&agrave; di punta di 290 km/h era semplicemente impressionante.  Il sasso &egrave; stato gettato nello stagno e appena l&#39;onda &egrave; arrivata a riva, Suzuki ha preso la decisione di gettarne uno ancora pi&ugrave; grosso. Dopo un paio d&#39;anni di sviluppo ecco arrivare, nel 1999, la GSX-R 1300: &egrave; pi&ugrave; potente, pi&ugrave; grossa, pi&ugrave; aerodinamica e pi&ugrave; cattiva della XX di Honda, volutamente studiata per diventare la moto pi&ugrave; veloce del secolo e di conseguenza la pi&ugrave; veloce di sempre. Il soprannome Hayabusa richiama il nome giapponese del falco pellegrino, ovvero il pi&ugrave; veloce animale presente sul pianeta terra. Non &egrave; un caso che alla nuova arrivata sia stato affidato questo nome: in natura il falco pellegrino va ghiotto di corvi... in inglese &quot;blackbird&quot;.  Prima Serie dal 1999 al 2007    Il gentlemen agreement fra le case produttrici giapponesi ha limitato la velocit&agrave; massima raggiungibile dalle motociclette prodotte in patria a 299 km/h, una top speed che la &quot;Busa&quot; senza limitatore elettronico riusciva facilmente a superare, arrivando fino a 312 km/h. Lo scettro di moto pi&ugrave; veloce del secolo non glielo avrebbe tolto pi&ugrave; nessuno. Tecnicamente era tutto votato alla massima stabilit&agrave; a velocit&agrave; elevate, quindi il telaio doppio trave in alluminio era lungo e avvolgente e portava l&#39;interasse al valore di 1.485 mm.  Il motore da 1299 cc era ovviamente un 4 in linea che erogava la mostruosa potenza di 175 CV a 9.800 g/min, per una coppia altrettanto strabiliante di 138 Nm a 7.000 g/min. Con peso di soli (per la stazza) 215 kg poteva garantire accelerazioni brucianti.  La parte pi&ugrave; innovativa del mezzo era, comunque, l&#39;aerodinamica. Non si era mai vista prima una moto con queste forme, sviluppate in galleria del vento per consentire a l&#39;aria di scivolare attorno a moto e pilota nella maniera pi&ugrave; efficiente possibile. Ora siamo abituati ad alette e deportanza, al tempo c&#39;era solo la ricerca della velocit&agrave; pura e ogni curva era funzionale alla pulizia assoluta del flusso d&#39;aria attorno al mezzo. Il suo stile bulboso e abbondante l&#39;ha senza dubbio resa un&#39;icona del design che &egrave; rimasta un vero e proprio unicum nel panorama motociclistico.  &nbsp;  Seconda Serie dal 2008 al 2020    Longevissima, la seconda serie della Suzuki Hayabusa ha ricevuto numerose migliorie rispetto alla prima, mantenendo la reputazione di una delle moto pi&ugrave; veloci e potenti al mondo bench&egrave; tutto il clamore della corsa alle velocit&agrave; massime fosse ormai scemato. Il motore &egrave; stato aggiornato con l&#39;introduzione di un sistema di iniezione elettronica del carburante che ha migliorato l&#39;erogazione a qualsiasi regime di giri. Il motore &egrave; lo stesso quattro cilindri in linea raffreddato a liquido, ma ora portato a 1340 cc per erogare 197 CV e 155 Nm di coppia massima.  Anche l&#39;estetica della Hayabusa &egrave; stata rivista con una carrozzeria pi&ugrave; aerodinamica e armonica, ma che mantiene il caratteristico design della serie precedente. La sospensione anteriore della nuova Hayabusa, come nella prima serie, &egrave; una forcella telescopica a steli rovesciati completamente regolabile, mentre dietro c&#39;&egrave; un mono altrettanto settabile. La seconda serie porta in seno un&#39;elettronica avanzata con controllo della trazione, il sistema antibloccaggio dei freni e un nuovo e innovativo cambio elettronico che consente di cambiare marcia senza usare la frizione.  In sintesi, la Suzuki Hayabusa di seconda serie &egrave; una moto ad alte prestazioni che mantiene la reputazione della serie precedente senza stravolgerla, ma con miglioramenti significativi in termini di tecnologia, prestazioni e comfort di guida. Ovviamente i numeri sono rimasti di nicchia e il successo negli Stati Uniti (paese dove ha avuto il maggior numero di vendite) &egrave; proseguito in modo costante. Anche per questo &egrave; stata venduta fino al 2020 senza interruzioni, mentre in Europa &egrave; stata tolta dai listini per diversi anni.  &nbsp;  Terza serie dal 2021    E nonostante i numeri di vendita non esaltanti, la Busa &egrave; tornata in listino anche in Europa con la terza serie presentata nel 2021. In questo caso, la leggenda prosegue per portare avanti la dinastia del progetto ma non pi&ugrave; per cercare di battere tutti i record. Ci sono, oggi, moto molto pi&ugrave; veloci e prestanti, ma che assolutamente non riescono a mantenere lo stesso confort di questo gioiello alle alte velocit&agrave;.&nbsp;  Realizzata sulla base di quella precedente, la nuova GSX-R 1300 ha la meccanica aggiornata con un&#39;elettronica rinnovata che porta al limite delle possibilit&agrave; il 4-in-linea da 1340cc. Nella nuova versione abbiamo le limitazioni imposte dall&#39;Euro5, ma il dato di potenza massima rimane elevato: 190 CV ora dichiarati (contro i preecedenti 197 CV) la coppia massima &egrave; invece di 150 Nm a 7000 giri/min (contro 155 Nm a 7200 giri/min)&nbsp;valori che per&ograve; non impediscono un miglioramento della curva di erogazione fino alla soglia 6000 giri/mini.&nbsp;La velocit&agrave; massima &egrave; ancora autolimitata a&nbsp;299&nbsp;km/h.&nbsp;  L&#39;elettronica &egrave; ovviamente tutta nuova grazie al nuovo sistema SIRS (Suzuki Intelligence Ride System)&nbsp;che si interfaccia con la IMU a sei assi e porta in dote 3+3 Riding Mode (tre mappe preimpostate pi&ugrave; 3 impostabili dall&rsquo;utente).&nbsp;Ognuno di questi seleziona il livello di intervento del TC, l&rsquo;Anti-Lift control, l&rsquo;Engine Brake e il cambio Quick-Shift bidirezionale. Chi sceglie ancora una Hayabusa, di questi tempi, lo fa per una questione di pura passione e senza andare pi&ugrave; alla ricerca dei record assoluti.   Chi decide di comprare una moto del genere nel 2023, sposa una filosofia e uno stile di guida unici che - a giudicare dalla longevit&agrave; del progetto - sembrano non voler cambiare mai. E anche per questo grazie Suzuki per non aver mai cambiato i connotati a una moto leggendaria che merita altr 25 di questi compleanni.    BMW Motorrad compie 100 anni: ecco 5 cose che (forse) non sapevi 

Nel 1999 debuttava una delle moto pi&ugrave; iconiche di questo inizio millennio,&nbsp;velocissima e disegnata dal vento, un&nbsp;sogno di tanti appassionati

25 anni di Suzuki Hayabusa: la storia del falco pellegrino

        Ricordo solo che volevo correre in moto. In pista. Ginocchio a terra. Gomiti larghi. Adrenalina. Ma ricordo anche che non avevo una lira in quel periodo. Siamo nei primi anni 2000, laureato da poco, avevo iniziato a bazzicare la redazione del mio primo magazine. Con il relativo primo (non proprio ricco) stipendio. Ma, accidenti, volevo correre a tutti i costi. Era un pensiero fisso nonostante l'et&agrave; per sfondare (ammesso e non concesso che avessi quel talento che serve per arrivare davanti..) era passata da un bel po'. Feci i conti: qual &egrave; il campionato pi&ugrave; economico per iniziare? Risposta quasi automatica: l&rsquo;Honda Hornet Cup. Mi ci sono buttato come se la questione fosse di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell&rsquo;intero genere umano. Mercato moto, parte bene la Honda Hornet: prima tra le naked Una preparazione semplice e costi contenuti  Bastava poco per scendere in pista. Una Renault Clio da oltre 200mila chilometri con gancio, un carrello, una Hornet, cavalletti, termocoperte, un po&rsquo; di attrezzi e una tenda per dormirci vicino la notte nel paddock. Quanto alla moto, il mondo dell&rsquo;usato offriva molti esemplari a prezzi appetibili: quella moto, la seconda versione con ruota anteriore da 17&rdquo;, era realmente indistruttibile. Un motore che bastava cambiargli l'olio, una moto tanto semplice tecnicamente quanto bella da vedere. E poi c'era il kit fornito dall&rsquo;organizzatore, che era abbastanza completo per preparare la moto. C&rsquo;erano le plastiche (cupolino, pancia inferiore e codone...), le pedane rialzate in lega leggera, un treno di gomme e il terminale di scarico (se non ricordo male...). E ancora, lubrificanti e prodotti vari da usare durante la stagione. "Sponsor? Mamma e pap&agrave; quando andava bene..."  La preparazione andava fatta rigorosamente nel garage di casa, meglio se di notte con una birra, fatto salvo per la forcella: quella era sempre meglio farla fare da un bravo preparatore... per quanto poi non &egrave; che fosse particolarmente sofisticata! Una volta montato il terminale (non c'era il catalizzatore allora) c'era da fare anche la carburazione che ovviamente richiedeva il banco prova e mezzo chilo di getti per i carburatori. Che poi, farla, era un delirio di lavoro considerato come i carburatori erano incastrati sotto il grezzo monotrave in acciaio di sezione rettangolare. Bisognava tirare gi&ugrave; il serbatoio, poi la scatola del filtro, mollare le viti dei condotti di aspirazione e bestemmiare per sganciare i cavetti del gas. Su, gi&ugrave;, su, gi&ugrave; fino a quando la curva di coppia dava delle soddisfazioni. Non &egrave; che si guadagnassero decine di CV, ma quantomeno si puliva l&rsquo;erogazione. Che in pratica si traduceva nella possibilit&agrave; di usare un dente in meno di corona in qualche pista per guadagnare qualche km/h. Il resto era tutto &ldquo;home made&rdquo;: via tutte le plastiche, rimaneva solo il serbatoio e i fianchetti. Poi andavano fatti i supporti per la carenatura inferiore, il frontale (che quelli in dotazione non andavano mai bene) e il codone, che inglobava anche la porzione di sella posteriore. Si montavano gli immancabili tubi freno in treccia e un manubrio dalla piega bassa per guadagnare un po' di carico sull'avantreno. Nulla di pi&ugrave;. Per essere pi&ugrave; fighi, una bomboletta e del colore appariscente. Sponsor? La &ldquo;mamma e pap&agrave;&rdquo; quando andava bene... &nbsp;Vita da paddock, semplice e frugale  Poi le gare. La competizione era notevole. La griglia davvero numerosa. Ma l&rsquo;ambiente era amichevole: insomma, i consigli (non troppi) per i neofiti non mancavano. Soprattutto per scegliere la rapportatura giusta: corona, pignone e le marce da usare su ogni singola curva. Che poi, era l'unica cosa che si poteva fare per rendere la moto pi&ugrave; veloce. L'assetto, infatti, lasciava poco spazio alla fantasia con le prime versioni. Una volta trovate le altezze giuste di avantreno e retreno i giochi erano fatto. La forcella, nelle prime versioni, non era regolabile, il mono s&igrave;, ma non faceva miracoli. Anche perch&eacute; il punto debole era la struttura ciclistica, con quel monotrave in acciaio che soffriva ogni sollecitazione. Ricordo il dramma del chattering (e chi ne sente pi&ugrave; parlare oggi...), con il pneumatico anteriore e la forcella che sembravano smontarsi dalle vibrazioni. Tanto che alla fine conveniva usare una mescola stradale delle Michelin d'ordinanza. Meno grip, meno sollecitazioni alla ciclistica, meno problemi... In gara quelli da battere erano i soliti, velocissimi, imprendibili. Poi c&rsquo;era il gruppone a ridosso dei primi. Guidare la Hornet (prima serie) non &egrave; che fosse un&rsquo;esperienza esaltante. Ma era divertentissimo. Fletteva tutto, ondeggiava, si muoveva... a causa di una ciclistica che per certi versi era sottodimensionata rispetto alle potenzialit&agrave; del motore. Che, ricordiamolo, in quel periodo veniva usato anche sulla CBR 600 schierata nel Mondiale SuperSport. Anni eroici, anni di paddock gremiti all&rsquo;inverosimile. Tanti piloti che arrivavano col carrello, senza doppi cerchi, nessuna hospitality o borracce con integratori in mano di pilotini che gi&agrave; si credono star. La mia &ldquo;struttura&rdquo; era un gazebo comprato al supermercato (che quelli veri costavano troppo), l'auto carica all'inverosimile e il carrello. Si lavorava cos&igrave;, un treno di gomme usate per le prove libere, un posteriore nuovo per le ufficiali, un treno competo per la gara. Pregando perch&eacute; non piovesse all'ultimo minuto. E chi li aveva i doppi cerchi per le rain? Che poi era una voce di costo non prevista che andava ad aggiungersi a quelle di trasferta, alla benzina, alle gi&agrave; preventivate gomme da asciutto. Si dormiva in tenda, a volte in auto (quando faceva davvero freddo o pioveva), si mangiava con il fornello da campo. Ci si trovava con gli altri piloti la sera. E si cadeva...  ...a volte banalmente, altre un po' pi&ugrave; seriamente, come alla prima uscita del 2004 a Vallelunga. Che allora era ancora &ldquo;corta&rdquo; e c'era la variante della Trincea. L'uscita nel curvone a sinistra da quarta marcia, l'hi-side, un volo che non ricordo nemmeno quanto &egrave; durato, e la moto che rotola per decine di metri fin quasi dentro alla curva del Semaforo. Si ruppero anche gli attacchi del basamento del motore dalla botta. Ne uscii malconcio, sanguinante e... asimmetrico nella vista frontale, con una spalla messa cos&igrave; cos&igrave;. Ma nulla che potesse fermare la mia sete di gare. Moto da buttare. Quasi tutta: il motore ce l'ho ancora, in un angolo del garage. L&igrave; da quasi vent'anni. Ad attendere. Ci sono affezionato a quel blocco di metallo. Ognuno ha le sue debolezze... La mia si chiamava Hornet Cup. Prova, Honda Hornet 2023: nuova generazione VIDEO       

LA STORIA - Il ritorno della rinnovata naked di Tokyo riporta alla memoria il trofeo monomarca che animava le piste di tutta Italia e che si correva con l'antesignana. Un campionato vivacissimo, ancora poco costoso, divertente

L'epoca dell'Honda Hornet Cup: ecco quando correre era semplice

Antesignana. E&#39; di qualche giorno fa la notizia del ritorno di Kawasaki con una 400 sportiva, la nuova Ninja ZX-4R, che in autunno vedremo in vetrina. La Casa di Akashi non &egrave; nuova a questa proposte a 4 cilindri per la piazza europea. E i meno giovani di certo la ricorderanno.&nbsp; Era il 1989 quando debutt&ograve; sul mercato la&nbsp;prima ZXR 400, la sportiva Kawasaki dotata di motore 4 cilindri in linea. Un segmento che circa 30 anni fa furoreggiava in Giappone dove, complice le norme che riguardavano le patenti per la guida delle maxi 750-1000, piuttosto severe, le &quot;4 sorelle&quot; del Sol Levante si sfidavano con piccoli bolidi a 4 cilindri da 400 (ma anche 250) cc.&nbsp; In Italia la Kawasaki&nbsp;ZXR 400 fu l&#39;unica ad essere importata, seppure in piccoli quantitativi, e rappresent&ograve; per anni l&#39;alternativa a 4T alle pi&ugrave; apprezzate 250 2T: Suzuki RGV Gamma 250 e, in seguito, l&#39;Aprilia RS 250.  Rewind, Honda NR 750: &egrave; ancora la moto pi&ugrave; tecnologica?  Kawasaki ZXR 400: TECNICA DA MAXI  Per controbattere le prestazioni delle guizzanti rivali la Kawasaki ZXR 400, arrivata nel 1989 come &quot;H&quot; e poi aggiornata nel 1991 come versione &quot;L&quot;, metteva in campo il meglio della tecnica applicata all&#39;epoca sulle medie e maxi sportive: telaio doppio trave in alluminio, motore 4 cilindri in linea DHOC 16V, con prestazioni (alla ruota) notevoli. I nostri rilevamenti sul modello provato nel 1997, parlano di 58,44 CV a 12.400 giri, una coppia di 3,41 Kgm a 12.200 giri, per una velocit&agrave; massima di 212 Km/h. Il motore, potente ma ingombrante, chiedeva il suo obolo: la ZXR 400 pesava 182 Kg (in ordine di marcia) il che la allineava al peso di una pi&ugrave; potente media.&nbsp;Per fare un riferimento, rimanendo in casa Kawasaki, la ZX-6R del 1997 pesava 185 Kg. A ci&ograve; si aggiungeva un prezzo di 16.810.000 Lire (circa 8.600 euro di oggi) che la poneva sopra la nuovissima GSX-R 600 presentata nel 1996 di circa 600.000 lire (circa 320 euro).    GIOIELLO PREZIOSO  Nonostante questi &quot;intoppi&quot; la ZXR 400 rappresent&ograve;&nbsp;una degna alternativa per gli amanti della guida sportiva, ma senza avere tra le mani un mezzo eccessivamente impegnativo. Forte di doti ciclistiche e di motore che ancora oggi non sfigurerebbero affatto. A patto di trovarne una ancora a &quot;piede libero&quot;. In effetti, dato l&#39;esiguo numero di esemplari importati e venduti all&#39;epoca, molti proprietari di questo piccolo gioiello se ne guardano bene dal disfarsene.&nbsp;  Quanto costerebbe oggi una Aprilia RS 250 o una Ducati 916?  Per sapere come raccontavamo la Kawasaki ZXR 400 in occasione del nostro test sulle pagine di InMoto del 1997, non vi resta che voltare pagina --&gt;  &nbsp;  &nbsp;  PUROSANGUE ADDOMESTICATA    Da buona sportiva, la Kawasaki ZXR 400 &egrave; piuttosto compatta, ma anche i piloti pi&ugrave; alti riusciranno a trovare una sistemazione accettabile, le maggiori difficolt&agrave; sorgevano invece al momento di accucciarsi dietro al ridotto cupolino. La posizione di guida non &egrave; esasperatamente coercitiva, ma la sella decisamente bassa, crea un inserimento nel corpo macchina che ad alcuni potr&agrave; sembrare eccessivo. Il manubrio &egrave; piuttosto distante, ma non tanto da creare affaticamenti alle braccia, mentre le pedane non sono particolarmente alte da arretrate.  Quando si sale in sella ci si accorge che si tratta di una purosangue ma molto ben addestrata, quasi addomesticata, capace di tirar fuori le unghie, ma solo quando &egrave; il pilota a volerlo; comunque rimane sempre molto docile come se riconoscesse il padrone, a dispetto di una apparenza aggressiva che la vorrebbe data solo a chi ha gi&agrave; il pelo sullo stomaco. Invece anche ai neofiti &egrave; concesso entrare le sue grazie.  Solo nei percorsi strettissimi (cio&egrave; in citt&agrave;) ci si trova un po&#39; a mal partito, mentre appena si acquista velocit&agrave;, la ZXR e trasmette grande sicurezza e ci&ograve; &egrave; dovuto principalmente a due fattori: uno sterzo solido come una roccia &egrave; un propulsore veloce ma mai brusco. Certo se andarci piano &egrave; una cosa andassi forte &egrave; un&#39;altra, per ottenere buone prestazioni ci vuole un minimo di malizia: motore infatti, pur regolarissimo, a basso regime lo spinge pi&ugrave; di tanto, cos&igrave; va mantenuto sempre su di giri (al di sopra di quota 10.000), e in curva bisogna cercare di perdere meno velocit&agrave; possibile, ed in questo la piccola Kawasaki aiuta, grazie proprio al granitico avantreno, che permette di affrontare i curvoni insicurezza a gas spalancato, pennellando le tre torri al millimetro.    Kawasaki ZXR 400: IL MOTORE  La curva di erogazione &egrave; incredibilmente ampia, basti pensare che il limitatore entra in funzione a 15.000 giri indicati, ma &egrave; possibile viaggiare in sesta a 1500 giri, pena soltanto qualche lieve incertezza all&#39;apertura del gas.  Gi&agrave; a 4000 giri il tiro si regolarizza, a&nbsp;partire dagli&nbsp;8000 giri il motore comincia a spingere in maniera sostanziosa, in un continuo crescendo accompagnato dall&#39;urlo dello scarico, l&#39;accelerazione si stempra&nbsp;solamente con l&#39;approssimarsi della zona rossa. Nella classica prova di accelerazione sui 400 m la ZXR 400 spunto un ottimo 12,2 secondi grazie ad un avantreno ben saldo a terra che permette di aprire il gas senza tanti riguardi. La velocit&agrave; massima fatta registrare &egrave; di 212,1 km/h superiore a quella delle sportive due tempi di 250 cc.  Rewind, Kawasaki ZXR-750 &#39;91: equilibrio verde 

Indole racing, potente e gasante con quel motore da 15.000 giri. Pesava quasi quanto&nbsp;una media del periodo e non costava poco, ma per prestazioni globali &egrave; ancora oggi una moto godibilissima (a patto di trovarne una)

Rewind, Kawasaki ZXR 400: piccola grande sportiva

Quando il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, a fine anni &#39;50, visit&ograve; gli Stati Uniti in viaggio diplomatico, venne affascinato dalle forme e dall&#39;imponenza delle Harley-Davidson. Moto con una &quot;presenza&quot; del genere in Europa non esistevano e tutta la produzione era incentrata su modelli piccoli e scattanti. Le Moto Guzzi Falcone dei Corazzieri, bench&egrave; ottime moto, non potevano reggere il confronto per stile ed importanza e a Gronchi pesava parecchio, tanto da far balenare nel suo cervello l&#39;ipotesi di acquistare delle HD dall&#39;America.  Per una questione istituzionale, i Corazzieri non potevano avere moto estere e quindi fu indotto un bando di concorso per la fornitura di un nuovo modello di moto di rappresentanza e per l&#39;utilizzo delle Forze Armate. Moto Guzzi rispose per prima e decise di recuperare il progetto&nbsp; di motore bicilindrico a V che Giulio Cesare Carcano sviluppo&#39; per una nuova versione sportiva della Fiat 500, ma che non and&ograve; mai in porto. Stiamo parlando del bicilindrico a V trasversale che ancora oggi &egrave; bandiera intramontabile del marchio lariano.    La V7, origine ed evoluzione  La richiesta del Presidente fu chiara: una moto robusta, in grado di raggiungere alte velocit&agrave; e capace di percorrere almeno 100.000 km senza la necessit&agrave; di troppa manutenzione. Quando la V7 si present&ograve; al mondo nel 1965 incant&ograve; tutti, perfino gli americani che non si sarebbero mai aspettati una moto del genere da un produttore europeo. Massiccia, comoda, tecnologica e veloce, ha raggiunto 19 diversi record di velocit&agrave; per moto di serie tra cui i 100 km alla media di 218.5 km/h, l&#39;ora a 217 km/h e i 1000 km a 206 km/h. Con la sucessiva versione V7 Special da 750cc e la velocissima V7 Sport venne ampliata una gamma che divent&ograve; il vanto del motociclismo italiano nel mondo.&nbsp;  Il picco della popolarit&agrave;, poi, venne raggiunto quando gli Stati Uniti ordinarono un lotto di V7 Special con parabrezza maggiorato e protezioni per la Polizia Stradale della California. Il modello denominato per l&#39;appunto &quot;California&quot; fu la ciliegina sulla torta che ribalt&ograve; la situazione iniziale delle FF.OO, prima ad un passo dall&#39;acquistare prodotti americani, poi fornendo moto agli USA per la comprovata superiorit&agrave; tecnica e dinamica. Che soddisfazione.    &nbsp;  Dal passato ai giorni nostri, un nome che rimane  Da quel modello di met&agrave; anni &#39;60 con motore da 50CV e poco pi&ugrave; di 220 kg di peso, inizi&ograve; il percorso che ha portato Moto Guzzi ai giorni nostri passando attraverso crisi aziendali, modelli iconici, passaggi di propriet&agrave; e rinascite pi&ugrave; o meno riuscite. E nonostante tutto ci&ograve;, il modello che fa la differenza nel listino di Mandello ha ancora quel nome: V7.  Certo, si tratta di un mezzo ben diverso e con una storia meno affascinante di quella che ha dato i natali al mitico V2. L&#39;attuale modello &egrave; stato presentato a EICMA 2007 ed era derivato dalla Breva 750, un progetto del tutto trascurabile nella lunga storia Guzzi. Il motore non era quello della &quot;serie grossa&quot; di un tempo ma quello della &quot;serie piccola&quot; degli anni &#39;80, rivisitato e rialesato per addattarsi bene ai giorni nostri.&nbsp;  La prima V7 Classic uscita dagli stabilimenti di Mandello vantava 48CV e 182 kg a secco, dimensioni compatte e un carattere decisamente meno &quot;boss&quot; rispetto al modello originale. Ora si parla di una motina vintage sull&#39;onda del successo della Triumph Bonneville, indicata per un utilizzo cittadino e gite fuoriporta, con un look ispirato al passato che segue una delle mode dei giorni nostri.&nbsp;    Una sigla che &egrave; un successo, da sempre  Con poco investimento da parte dell&#39;azienda, nessuno si sarebbe immaginato un successo cos&igrave; esplosivo e fin dal debutto &egrave; sempre stata la Moto Guzzi pi&ugrave; venduta del listino. Nel 2021 la moto viene completamente rivista fino all&#39;ultimo bullone, adottando il motore 850 da 65CV della V85TT e sposando dimensioni pi&ugrave; generose, ma uno stile molto simile (quasi identico) alla precedente. Il suo successo non si ferma, anzi, cresce, e nel 2022 &egrave; ancora una volta nella Top10 delle moto pi&ugrave; vendute dell&#39;anno.  Ci sono mille motivi per amare la vecchia Guzzi V7 degli anni &#39;60, e altri mille per amare la moderna interpretazione del concetto. Hanno lo stesso nome ma origini e utilizzi del tutto diversi ed entrambe le interpretazioni hanno portato a un indiscutibile successo. Un segreto forse non c&#39;&egrave;, si tratta semplicemente di moto ben pensate e azzeccate per l&#39;epoca in cui si inseriscono, e chiss&agrave; se nel futuro ci saranno altre V7 - magari ancora una volta del tutto diverse - a replicare la gloria delle progenitrici.    Prova Moto Guzzi V100 Mandello S: muscoli e personalit&agrave; VIDEO 

Nasce nel 1965 come moto della rinascita e, ai giorni nostri, &egrave; il modello che ha riportato la Guzzi nell&#39;olimpo delle moto pi&ugrave; vendute d&#39;Italia. Ha scritto pagine di storia e, probabilmente, continuer&agrave; a scriverle

Moto Guzzi V7: una storia infinita

La Dakar 2023 &egrave; partita sabato 31 dicembre,&nbsp;e tutti i protagonisti affrontano ora&nbsp;il deserto dell&#39;Arabia Saudita in sella alle pi&ugrave; prestazionali 450 del mondo. Andando a guardare al passato di questa storica maratona alcune moto sono state&nbsp;vere icone di questa competizione e tante sono state quelle derivate da modelli stradali, che in passato venivano modificati (talvolta in modo davvero massiccio) per affrontare le lunghissime traversate da Parigi a Dakar. Ecco&nbsp;le cinque moto pi&ugrave; iconiche - e vittoriose - che abbiano mai corso nel pi&ugrave; duro dei rally raid... pi&ugrave; una.  Yamaha XT500    &nbsp;  La XT 500 &egrave; sempre stata nella mente degli appassionati come la prima enduro/dual di culto, quella che ha rivoluzionato il mercato delle moto fuoristrada negli anni &#39;70 grazie a un&#39;animo sia versatile che estremo, sottolineato dalla personalit&agrave; di colori e grafiche. Beh, in realt&agrave; nella storia della XT c&#39;&egrave; molto di pi&ugrave;, come la vittoria alla prima, storica Parigi-Dakar del 1979, guidata dal francese Cyril Neveu.  &nbsp;  La prima Dakar nacque con budget davvero ristretti, essendo un &quot;esperimenti&quot; del rallista Thierry Sabine, che volle creare il suo personale rally raid dopo essersi perso nel deserto partecipando a un&#39;altra competizione. Nessuna casa motociclistica o automobilistica era coinvolta in maniera ufficiale nelle prime edizioni e la XT 500 che vinse nel &#39;79 era qualcosa di unico, messa insieme con nastro adesivo e tanta passione. Da questo momento in poi fu un&#39;escalation di gare spettacolari e tecnologia sempre pi&ugrave; all&#39;avanguardia.    &nbsp;  &nbsp;  BMW R80 G/S    Nel 1981 l&#39;allora sconosciuto Hubert Auriol port&ograve; al debutto - e alla vittoria - un&#39;altra moto che &egrave; rimasta nelle memorie: la BMW R80 G/S, che di edizioni ne conquist&ograve; ben quattro, dall&#39;81 all&#39;85. Questa moto era il primo passo della Parigi-Dakar verso moto di cilindrata maggiore e con raffinate soluzioni tecniche, grazie a investimenti sempre maggiori e all&#39;attenzione crescente del pubblico verso questa gara, oltre che a una base davvero ottima (per equilibrio ciclistico e meccanico) e a un motore super affidabile.  &nbsp;  Auriol vinse due edizioni in sella alla GS, le altre due le conquist&ograve; il tedesco Gaston Rahier. L&#39;evoluzione di questo modello nella Parigi-Dakar &egrave; stata velocissima e consistente, con quella dell&#39;81 che sembrava pi&ugrave; che altro una R80 di serie con un serbatoio maggiorato e qualche adesivo, mentre l&#39;ultima dell&#39;85 &egrave; rimasta nel cuore degli appassionati come la pi&ugrave; bella di tutte, grazie anche alla livrea bianca/rossa dello sponsor ufficiale Marlboro e all&#39;estetica con cupolino grande e protettivo, che la faceva sembrare un incrociatore del deserto&nbsp;  &nbsp;    &nbsp;  Honda Africa Twin    &nbsp;  Cyril Neveu torna sul gradino pi&ugrave; alto del podio nel 1986 con una moto che ha lasciato il segno anche sul mercato. La&nbsp;NXR 750 era&nbsp;una bicilindrica da 780 cc&nbsp;con bancata a V di 45&deg; ammantata di una aggressiva livrea bianco blu con insegne dello sponsor Rothmans. Al suo debutto nel 1986 quella Honda conquist&ograve; primo e secondo posto .Per celebrare quel dominio (saranno 4 le edizioni di fila vinte da questa moto, dal 1986 al 1989) arriv&ograve; nel 1987&nbsp;la Africa Twin, che al tempo debutt&ograve; come 650 nei listini.&nbsp;  &nbsp;  Di originale, rispetto alla Africa Twin 650, la NXR aveva davvero poco, ed &egrave; stata lei la prima a portare nel mondo del rally raid l&#39;idea di moto sempre pi&ugrave; estreme e specialistiche per affrontare i durissimi deserti africani. L&#39;Africa Twin era comunque una base grandiosa, che trovava il suo massimo pregio nella trattabilit&agrave; del motore e nell&#39;equilibrio generale che rendeva questa moto facile anche per i meno esperti.  &nbsp;    &nbsp;  Yamaha T&egrave;n&egrave;r&egrave;    &nbsp;  Anche Yamaha, quando decise di entrare nel bivacco di questa gara, decise di farlo a gamba tesa con un progetto davvero ambizioso, e per vincere utilizz&ograve; l&#39;ottima YZE850T &quot;sorella&quot;&nbsp;della fortunata Super T&egrave;n&egrave;r&egrave; 750 che si giocava le vendite di endurona stradale con la Honda sopra citata. La Yamaha confezion&ograve; un prodotto eccellente e grazie al gran manico di Stephan Peteransel riusc&igrave; a conquistare ben 7 edizioni.&nbsp;  &nbsp;  Sul mercato la Super T&egrave;n&egrave;r&egrave; non riusc&igrave; ad eguagliare il successo dall&#39;Africa Twin, ma sulle sabbie africane surclass&ograve; la concorrenza diventando una delle&nbsp;moto con pi&ugrave; vittorie di sempre nella gara. Non fu solo il francese Peterhansel a vincere in sella al gioiello giapponese, ma un&#39;edizione la conquist&ograve; Edi Orioli, ragazzo che divenne ben pi&ugrave; famoso grazie a un&#39;altra moto.  &nbsp;    &nbsp;  Cagiva Elefant 900    E la moto con cui Edi Orioli conquist&ograve; un posto nella storia e nell&#39;immaginario collettivo &egrave; proprio la Cagiva Elefant, progetto voluto fortemente dalla famiglia Castiglioni che, dopo una prima fase con la 850, decise di mettere dentro una endurona il motore - debitamente&nbsp;rivisto dal Reparto Corse Cagiva -&nbsp;di una sportiva, la Ducati SS 900. Il risultato fu una moto dalle caratteristiche uniche e dal motore potente, tanto che nella versione da gara ( un prototipo, essendo molto diversa dalla stradale) fece davvero la differenza per due edizioni.&nbsp;  &nbsp;  Balzata di nuovo sulle bocche di tutti gli appassionati di recente, la Elefant 900 ha lasciato un&#39;eredit&agrave; importante, che ora sia Ducati (con la DesertX) che MV Agusta (con la Lucky Explorer 9.5) vogliono raccogliere e sfruttare per riportare l&#39;immagine delle endurone stradali italiane ai fasti di un&#39;epoca che fu gloriosa. Mai prima del 1990, e mai dopo, un team completamente italiano, su moto italiana e con pilota italiano ha mai pi&ugrave; trionfato alla Dakar.    &nbsp;  &nbsp;  KTM Adventure 950    La Adventure 950 &egrave; una moto degna di menzione, ma che non pu&ograve; meritare un posto nella top5 di oggi. L&#39;unico problema &egrave; che questa moto ha avuto una vita breve alla Parigi-Dakar ed &egrave; stata &quot;cannibalizzata&quot; dalla sorellina con motore LC4 monocilindrico. Ci&ograve; nonostante noi la ricordiamo perch&egrave; fu l&#39;ultima delle &quot;derivate stradali&quot; nella storia di questo rally raid e fu l&#39;ultima vittoria di un italiano, Fabrizio Meoni, che la fece trionfare in modo glorioso nel 2002 (dopo aver vinto l&#39;anno prima con la 660 LC8)&nbsp;  &nbsp;  Grazie anche al compianto Fabrizio, questa moto divenne un must per gli appassionati e un vero successo di mercato che continua ancora oggi, con la dinastia delle Adventure che non sembra voler fermarsi. KTM negli ultimi 20 anni si pu&ograve; di dire che ha letteralmente dominato la competizione fra LC4 e le pi&ugrave; recenti 450, moto studiate non per il mercato ma per performare unicamente nelle competizioni  &nbsp;    &nbsp;  Ducati DesertX vs. Lucky Explorer: una poltrona per due 

Dalla prima edizione del rally raid pi&ugrave; famoso del mondo, le protagoniste a due ruote sono state tantissime, ma solo alcune sono riuscite ad entrare nel cuore degli appassionati, e molte derivate da modelli stradali

Top5: le leggende della Dakar

Transalp non &egrave; solo un modello di successo, ma un modo del tutto unico di concepire la passione per le due ruote. Poche moto sono riuscite a ritagliarsi uno spazio cos&igrave; grande nella storia e il termine &quot;icona&quot; con lei assume un significato ancora pi&ugrave; profondo, diventando un&#39;espressione dello stile di vita di molti dei suoi pi&ugrave; affezionati proprietari.  Perch&egrave; Transalp?  Nel 1985 fu pensata come moto da 500cc, sull&#39;onda del successo delle &quot;dual&quot; come la Yamaha XT. Il progetto per&ograve; fu incrementato di cilindrata fino a 600cc e fu presentato a Parigi in versione definitiva nel 1986 come passo avanti rispetto a tutte le altre moto con anteriore da 21&quot; sul mercato.  Lo scopo era quello di creare una moto in perfetto equilibrio fra l&#39;avventura, l&#39;utilizzo quotidiano e il turismo su strada, ma che rimanesse anche economica e facile da guidare per tutti. Il nome Transalp fu scelto pensando al raid non competitivo Rally Transalp che si &egrave; svolto negli anni &#39;70 da Graz al Principato di Monaco, attraverso strade alpine sia asfaltate che in terra battuta. Sarebbe dovuta essere la moto perfetta per imprese di questo tipo, e di fatto lo &egrave; diventata.    &nbsp;  La prima serie XL600V  Quando fu presentata stup&igrave; per il suo cuore bicilindrico a V da 583cc con 3 valvole per cilindro, una novit&agrave; per mezzi di questa tipologia e grande orgoglio di questo progetto: era un propulsore non molto potente (43CV) ma robusto e con una coppia corposa fin dai bassi regimi che ha fatto innamorare immediatamente molti appassionati. L&#39;estetica faceva venire voglia di macinare chilometri con un cupolino pulito e protettivo, il faro e le frecce incassate nella carena e spazio per passeggero e borse.  Le colorazioni erano altrettanto accattivanti e facevano il verso alle moto che partecipavano alla Dakar. Di questa moto venne presentata anche una versione pi&ugrave; sportiva derivata dalla NXR 750 di Cyril Neveu che correva il Raid africano, denominata Africa Twin, ma questa &egrave; tutta un&#39;altra storia.  Prodotta in Giappone e distribuita nel resto del mondo, convinse subito i motociclisti europei e nei primi 6 mesi di commercializzazione raggiunse le 5.000 consegne. Si cap&igrave; subito che sarebbe stata una moto capace di aprire un nuovo capitolo del motociclismo e Honda la spinse forte con un marketing mirato ed efficiente, ma le vendite crebbero soprattutto grazie al passaparola di motociclisti soddisfatti che la consigliavano ad altri.  Un piccolo aggiornamento tecnico-estetico di met&agrave; carriera (strumentazione, colorazioni e freno a disco posteriore) ha portato la prima serie con faro quadrato fino al 1994, quando debutt&ograve; il restyling dell&#39;anteriore con cupolino filante e colorazioni pi&ugrave; moderne. C&#39;&egrave; chi definisce questa come la seconda serie, nettamente riconoscibile grazie alla nuova estetica, altri invece la considerano comunque legata alla moto del debutto perch&egrave; il bicilindrico 600 non ha subito alcun cambiamento di sostanza nei primi 13 anni di servizio.    &nbsp;  La seconda serie XL650V  E&#39; con la 650 del 2000 che la Transalp cambia in modo concreto per la prima volta. Il layout &egrave; sempre quello, ma il telaio a doppio trave &egrave; nuovo cos&igrave; come l&#39;estetica - pi&ugrave; morbida e avvolgente - mentre il motore 3 valvole riceve un boost di cilindrata e potenza raggiungendo i 647cc e 55CV. Gli elementi riconoscitivi come lo scarico alto a doppia uscita, le frecce integrate sulle fiancatine e la linea da tuttofare non mancano, il successo pu&ograve; continuare.  Chi ha scelto Transalp in quegli anni ha puntato a una moto concreta, collaudata e senza sorprese, un&#39;affidabile compagna di vita e non solo di giretti nel weekend. Questa edizione ha avuto vita pi&ugrave; breve rispetto alla 600, ma non ha di certo deluso le aspettative vendendo parecchie unit&agrave; e ispirando altre moto di successo, Suzuki V-Strom 650 su tutte.    &nbsp;  La terza serie XL700V  L&#39;ultima Transalp della dinastia (terza o quarta serie, decidete voi) &egrave; la XL700V, che nel 2007 ha cambiato ancora una volta aspetto e ha introdotto un aggiornamento meccanico importante come il motore da 680cc e 60CV. Si trattava sempre di un bicilindrico a V da 52&deg; ma questa volta dotato di iniezione elettronica e teste a 4 valvole per cilindro. Con queste caratteristiche &egrave; diventata senza dubbio la Transalp pi&ugrave; morbida e facile da guidare, mentre l&#39;estetica ha virato su qualcosa di inedito con il faro tondo anteriore e linee pi&ugrave; osate, perdendo sia il tipico terminale a doppia uscita che le frecce integrate nella carena.  Nel 2013 il modello &egrave; uscito dai listini senza essere sostituito da una nuova serie. Le vendite sono andate a calare negli ultimi anni di produzione e i vertici Honda hanno preferito abbandonare il segmento delle globetrotter pensionando sia lei che l&#39;Africa Twin.    &nbsp;  Il futuro a due cilindri paralleli  Sono passati 10 anni e il mondo &egrave; completamente diverso. Il segmento delle ruote alte domina i mercati occidentali e Honda &egrave; ritornata in grande stile con l&#39;Africa Twin come protagonista fra le grandi viaggiatrici on-off. I tempi sono maturi, quindi, per la nuova Transalp, che cambia completamente nei connotati ma non nell&#39;ispirazione di base e nel posizionamento come crossover di media cilindrata.  Ora, con la nuova XL750 abbiamo un bicilindrico parallelo da 750cc condiviso con la Hornet e uno scarico singolo laterale, ma rimane una moto che ha voglia di macinare chilometri guidata dalla ruota da 21&quot; con canale dorato che ha fatto innamorare migliaia di motociclisti dal 1986 a oggi. Sar&agrave; capace di replicare il successo e di rimanere coerente con la sua storia nonostante le enormi differenze tecniche? Ai posteri l&#39;ardua sentenza.    Honda Hornet: la storia del calabrone giapponese 

A 36 anni dal primo modello la endurona di Tokyo &egrave; ritornata sui listini e con un&#39;eredit&agrave; importante, quella di moto che ha saputo scrivere un pezzo di storia delle due ruote rubando i cuori di migliaia di motociclisti

Honda Transalp: storia di come &egrave; cambiata la XL dal 1985 a oggi

A fine anni &#39;90 Honda e Suzuki, &quot;spinte&quot; dai successi commerciali e sportivi della Ducati con la 916, misero sul piatto le loro proposte dotate di motore bicilindrico

Suzuki TL 1000 S: LE FOTO

Nel 2002 la R1 acquisiva un sistema di iniezione elettronica, le linee della moto pur mantenendo un family feeling con la precedente versione vedevano ora tratti ancora più tesi con la novità estetica dello stop a LED inglobato sul codone. 152 i CV dichiarati e più trattabili del motore

Yamaha YZF-R1 2002: rivoluzione elettronica

        In Italia sono praticamente introvabili, in Paesi come Stati Uniti e Canada &egrave; invece facile scovarle in giro, senza parlare dell'est Europa, loro habitat naturale, dato che provengono da l&igrave;. Stiamo parlando delle moto costruite da marchi russi. Alcune arrivano sul mercato occidentale, altre no, qualcuno le ha viste da vicino, altri solo in foto. Il portale specializzato Russia Beyond ha deciso di farle conoscere a un vasto pubblico pubblicando una piccola classifica di modelli russi. Andiamo a scoprirle. URAL 2WD SIDECAR ISPIRATA A JAMES BOND &nbsp; URAL  Il marchio russo produttore di moto pi&ugrave; famoso &egrave; Ural. Che, pi&ugrave; che per le motociclette, &egrave; noto per la realizzazione di sidecar. L'azienda nacque nel 1940 per costruire dei mezzi che potessero aiutare l'esercito sovietico in guerra. La base tecnica da cui i sovietici copiarono &egrave; quella dei sidecar BMW. Il marchio poi crebbe di popolarit&agrave;, iniziando a produrre anche motociclette, sempre di grossa cilindrata, sempre fuoristradali e sempre con un sidecar di fianco. Ural &egrave; famosa negli USA, tanto che anche Brad Pitt ne possiede un modello, il Tourist, un 750 cc da una quarantina di cavalli circa. &nbsp; IZH  Subito dopo Ural, il brand motociclistico russo pi&ugrave; diffuso &egrave; IZH, che tra l'altro vanta la maggiore diffusione sul mercato nazionale, dati i prezzi pi&ugrave; bassi rispetto al concorrente. IZH nasce negli anni '20 e prende il nome dalla sua sede, la citt&agrave; di Izhevsk. Nel corso degli anni ha prodotto tantissimi modelli, il pi&ugrave; celebre &egrave; Planeta 350 (1962). Chiamata cos&igrave; in onore dei progressi sovietici in campo aerospaziale, questa moto rimase in produzione fino agli anni '80, e da essa parte la produzione di tutte le monocilindriche della casa, comprese quelle moderne. Oggi le moto IZH sono prodotte dalla celeberrima azienda di armi Kalashnikov. &nbsp; VOSKHOD  Si tratta del marchio probabilmente pi&ugrave; sfortunato e "simpatico" di tutta la Russia. Nato anch'esso in epoca sovietica, non &egrave; una Casa indipendente: Voskhod &egrave; in realt&agrave; il nome delle moto costruite dalla ZiD, azienda specializzata in missili, che cominci&ograve; a realizzarle dal 1965. Destinate perlopi&ugrave; ai lavori rurali, tutte le Voskhod (che non avevano una base europea da cui copiare, a differenza degli altri marchi russi...) erano spinte da un monocilindrico 2T da 175 cc, ma per una certa fetta delle popolazione sovietica venne sempre visto come una moto premium. Il nome "Voskhod" significa "alba". Un suo esemplare &egrave; protagonista nel romanzo di Ken Follett "I giorni dell'eternit&agrave;". &nbsp; TULA  Ha avuto vita breve, Tula, dal 1984 al 1996, ma tanto gli &egrave; bastata per ritagliarsi un posto in questo elenco. Particolarit&agrave; della Tula &egrave; di aver prodotto modelli off-road dal design particolare: il telaio era leggerissimo e il motore abbastanza potente, ma spicca il fatto di aver inserito in alcuni modelli ruote tassellate dalle dimensioni di quelle degli scooter. Per anni divenne la moto preferita dagli amanti della caccia e della pesca, che la utilizzavano per gli spostamenti su strade sterrate o impervie. &nbsp; STELS  La Velomotors realizza moto, biciclette e quad a partire dalla sua fondazione, avvenuta nel 1996. Il brand sotto il quale vengono commercializzate le motociclette &egrave; Stels. In gamma spiccano modelli enduro, ma anche granturismo, tutte con un design di stampo molto europeo, che d&agrave; risalto alle linee dinamiche e sportive. &nbsp; IRBIS  Sportiveggianti anche le Irbis. La giovanissima Casa di Vladivostok (&egrave; stata fondata nel 2001) produce moto che non richiedono costi esorbitanti e che soprattutto si adattano egregiamente alle rigide temperature russe. Caratteristiche che l'hanno fatta diventare in breve tempo uno dei marchi pi&ugrave; apprezzati e di successo sul mercato locale.       

Dai sidecar della nota Ural alle sportiveggianti Stels. Una lista dei modelli pi&ugrave; popolari

Russia: le Case moto nella terra degli Zar

La R1 uscita quell'anno, oltre a prestazioni esaltanti, offriva tantissimo in termini di guida, performance elevate in pista grazie anche ad un completo rifacimento del telaio e nuovo forcellone con diversi leveraggi per il mono. Vi fu un incremento di peso (206 Kg), 6 kg in più rispetto al precedente modello.  La R1 del 2009 era una moto decisamente riconoscibile: senza vederla arrivare si percepiva la sua presenza in relazione al caratteristico, inconfondibile, sound allo scarico dovuto alla particolare fasatura dell'albero motore a croce (Crosso Plane).

Yamaha YZF-R1 2009: irregolarità al potere

Ad EICMA del 1997 (al periodo si svolgeva a Settembre alternandosi con Colonia), Yamaha presentò al mondo la YZF-R1 e molte cose, nel mondo delle sportive ad alte prestazioni, cambiarono. La creazione dell'ing. Kunihiko Miwa era quanto di più aggressivo il mercato avesse mai visto fino a quel momento

Yamaha YZF-R1 97-98: l'inizio di una storia

Ad EICMA del 1997 (al periodo si svolgeva a Settembre alternandosi con Colonia), Yamaha present&ograve; al mondo la YZF-R1 e molte cose, nel mondo delle sportive ad alte prestazioni, cambiarono. La creazione dell&#39;ing. Kunihiko Miwa era quanto di pi&ugrave; aggressivo il mercato avesse mai visto fino a quel momento: moto compattissima, carenatura compatta dalle linee tese, fascinose ed ancora attuali, e tante soluzioni inedite con dati tecnici dichiarati da primato: 177 Kg (196 Kg in ordine di marcia), 150 CV (erano 138 CV alla ruota), 1.395 mm l&rsquo;interasse. Erano&nbsp; i numeri della prima R1. &nbsp;Numeri di quello che, ben presto, divenne il metro di paragone di tutte le moto sportive da quel periodo in avanti.  TRA MITO E REALT&agrave;    Man mano che i primi esemplari venivano consegnati ai clienti, crescevano le voci, i miti, su quella moto: difficile da controllare, pronta a impennare e scodare, moto non per tutti. Ed in parte era cos&igrave;.  Molti furono i casi - si narra - di appassionati che la rivendettero dopo appena una settimana dall&rsquo;acquisto (leggende raccontano di frettolose riconsegne il giorno stesso). Protagonista il motore esuberante in termini di coppia fin dai regimi pi&ugrave; bassi, di un peso inferiore alla media e di un interasse inferiore a molte 600 dell&#39;epoca. L&rsquo;interasse ridotto, e sospensioni non all&rsquo;altezza di quei Kgm, rendevano per&ograve; la R1 nervosa come poche (ma bastava un buon upgrade a mono a forcella per avere una moto godibilissima). Ma, forse, il bello era proprio questo.  Dal 1997 di Miwa si succedettero progettisti e versioni con la R1 sempre ai vertici nelle preferenze degli smanettoni: per le indubbie qualit&agrave; dinamiche ma anche per un design da sempre molto apprezzato: dalla prime &ldquo;vipere&rdquo; (definite cos&igrave; per il caratteristico frontale con gli iconici fari) fino all&#39;&nbsp;M1-style di oggi. Oggi il fascino delle maxi race-replica &egrave; andato scemando sotto le bordate di una specializzazione fuori scala per tanti, oltre che prezzi di listino non proprio alla portata di tutti, ma certo &egrave; che se in qualche modo le sportive stuzzicano ancora l&rsquo;animo degli smanettoni, la R1 resta in prima fila e soprattutto le versioni precedenti sono ancora decisamente apprezzate, valide e ricercate.    Scopriamo l&rsquo;evoluzione di questa moto dalla sua nascita fino ai giorni nostri. Allacciamo il casco:  &nbsp;  Yamaha R1 1998: un diavolo per amico    Motore a quattro cilindri in linea, quattro tempi, inserito in un telaio a doppio trave in alluminio. Sulla carta niente di trascendentale, ma dal vivo quasi impossibile credere che si trattasse di una 1000. Compattissima, acquattata sulle gomme e sulle sospensioni, quasi fosse una moto da gran premio, la R1 del 1997 stabil&igrave; nuovi parametri anche per quanto riguarda il dimensionamento delle sovrastrutture. Due erano le colorazioni disponibili: una accattivante bicolore rosso-bianco perla, e una innovativo azzurro che richiamava le gare USA. Le rivali erano Ducati 916, Honda CBR900RR, Kawasaki ZX-9R oltre alla Suzuki GSX-R 750.&nbsp;  Le prestazioni dichiarate per la moto progettata dall&#39;ingegnere Miwa, e al cui sviluppo finale mise naso anche Colin Edwards, pilota al periodo in Yamaha SBK, parlavano di 150 cavalli per 177 kg, cifre che al periodo divennero quasi un mantra tra gli appassionati di moto sportive.  Tra le soluzioni tecniche introdotte ricordiamo il motore con cambio Tri-Axis, il forcellone decisamente lungo - &nbsp;considerati gli standard del periodo - che serviva a rendere pi&ugrave; efficace la trazione in virt&ugrave; di una elevata coppia del quattro cilindri dotato di valvola Ex-Up.&nbsp;  Questa R1 e ad oggi ancora molto richiesta dagli appassionati amatori ed &egrave; considerata un riferimento per il periodo poich&eacute; rivoluzion&ograve; la categoria.  Nel 1999 arriv&ograve; un piccolo aggiornamento per rendere la moto pi&ugrave; guidabile e gestibile con modifiche soprattutto alle alberi a camme volte a rendere pi&ugrave; regolare e meno esplosiva l&#39;erogazione, un ulteriore aggiornamento arriv&ograve; poi nel 2000 dove la linea venne leggermente rivista risultando pi&ugrave; affilata e ancora pi&ugrave; aggressiva. Nessuno stravolgimento per ciclistica e motore con le prestazioni che rimasero sostanzialmente invariate. Cal&ograve; di 2 kg il peso dichiarato a 175 kg.    &nbsp;  Yamaha R1 2002: pi&ugrave; dolce con l&rsquo;iniezione    Una prima svolta arriv&ograve; nel 2002. La R1 acquisiva un sistema di iniezione elettronica e le linee, pur mantenendo un family feeling con la precedente versione, vedevano ora tratti ancora pi&ugrave; tesi con la novit&agrave; estetica dello stop a LED inglobato nel codone. Questo nuovo design non convinse completamente gli appassionati pur restando la moto assolutamente efficace sia su strada - pi&ugrave; che in passato - che in pista. Troviamo novit&agrave; in ogni comparto, con la ciclistica che vede un nuovo telaio Deltabox III, pi&ugrave; rigido del 30%, e un nuovo forcellone, caratterizzati anche da una verniciatura in nero opaco; per quel che riguarda il motore, invariato nelle misure di corsa ed alesaggio, i cavalli ora dichiarati sono 152 con il citato plus della iniezione elettronica; il peso dichiarato cala ancora, a 174 Kg, merito anche dell&rsquo;impianto di scarico in titanio.  Rivista anche la distribuzione delle masse ora ancora pi&ugrave; accentrate attorno al baricentro con il motore riposizionato nel telaio. Il tutto per offrire una moto pi&ugrave; facile da gestire anche grazie ad una posizione di guida pi&ugrave; sportiva e sospensioni riviste, con la forcella che passa da 41 a 43 mm di diametro.&nbsp;    &nbsp;  Yamaha R1 2004: si guarda alla pista    Forte dei successi commerciali che ne avevano decretato l&rsquo;ascesa sull&rsquo;Olimpo delle maxi sportive pi&ugrave; affascinanti di sempre, la YZF-R1, arriv&ograve; alla sua terza generazione. Una svolta a quel periodo figlia della decisa accelerata di tutte le Case, in primis Suzuki con la strabordante GSX-R 1000, regina tra la sportive ad alte prestazioni, verso una sempre maggiore specializzazione.  Fu l&#39;ingegnere Yoshikazu Koike che che cambi&ograve; in parte le regole: la R1 di quell&#39;anno tagliava i ponti con il passato. La moto fu completamente rivista nell&#39;estetica, con la novit&agrave; del doppio silenziatore sottosella, nella ciclistica con un telaio ora unico elemento stressato (pi&ugrave; rigido del 200%), e del motore con misure di alesagggio e corsa pi&ugrave; spinte e potenza che cresce notevolmente arrivando a quota 172 cv a 12.500 giri ed allungo a quota 14.000. Lo scotto da pagare fu per&ograve; quello di una erogazione decisamente sfavorevole su strada e spostata verso l&#39;alto. La Yamaha R1 ora era una moto adatta soprattutto a dare il meglio di s&eacute; in circuito.  Nelle due stagioni successive si vide, oltre ad un aggiornamento a livello di grafiche, anche la versione SP (2006) ancora pi&ugrave; specializzata, prodotta in 500 esemplari, e contraddistinta da tanti particolari di pregio. Su tutti i cerchi in alluminio forgiati Marchesini, le sospensioni Ohlins oltre ad una frizione con anti-saltellamento. La potenza crebbe di 3 CV portando il dato dichiarato a 175 CV.    &nbsp;  Yamaha R1 2007: quattro valvole in meno per vincere in SBK    Alla fine degli anni &#39;10 arriva la quinta versione in quasi 10 anni di carriera della Yamaha R1. Con Mokoto Shimamoto la maxi sportiva si rinnova nel design, ma in modo pi&ugrave; consistente a livello meccanico e ciclistico. Il tutto anche con l&#39;obiettivo di portare a Iwata il primo Mondiale SBK, dopo il terzo posto della stagione precedente con il giapponese Nori Haga.   La nuova YZF-R1 era figlia in larga sostanza di una filosofia introdotta nel 2006 con la costituzione di uno specifico gruppo di lavoro ed una nuova concezione dello sviluppo elettronico (G.E.N.I.C.H, Genesis of Electrical engineering for New, Innovative Control technology with Human orientation)&nbsp;che l&#39;anno prima aveva portato alla realizzazione della, anche lei rivoluzionata, YZF-R6.  La parte, forse, pi&ugrave; eclatante del nuovo progetto fu l&#39;abbandono della storica soluzione delle 20 valvole sul quattro cilindri Genesis ora dotato di una pi&ugrave; classica (quanto efficace) distribuzione con 16 valvole.  Ovviamente le novit&agrave; non si fermavano solo ad una riduzione del numero delle valvole: il propulsore guadagn&ograve; 5 cavalli di potenza massima, ora siamo a quota 180 CV a 12.500 giri (che diventavano 189 con air-box in pressione), un sistema di condotti di aspirazione ad altezza variabile a controllo elettronico YCC-I (Yamaha Chip Controlled Intake) in abbinamento all&rsquo;YCCT (Yamaha Chip Controlled Traction) del comando del gas. Soluzioni che portarono ad una erogazione meno appuntita della precedente versione, pur non sacrificando nulla agli alti regimi. Il telaio, fatto di elementi fusi ed estrusi, di quinta generazione venne rivisto al pari del forcellone, ed ora entrambi pi&ugrave; rigidi nei punti maggiormente sollecitati, mentre forcella e mono vennero dotati di una maggiore possibilit&agrave; di regolazione. Novit&agrave; anche per i freni con l&#39;adozione di pinze anteriori a sei pistoncini.  Al livello estetico il cambiamento non fu radicale come quello della precedente versione: i tratti distintivi, seppur rivisti nelle proporzioni, restarono inalterati; curioso notare la presenza di primordiali alette poste sotto le due prese dinamiche.    &nbsp;  Yamaha R1 2009: arriva il titolo SBK con Ben Spies    Arriva la rivoluzione dettata dall&#39;adozione del motore a scoppi irregolari in stile MotoGP. La R1 uscita quell&#39;anno, oltre a prestazioni esaltanti, offriva tantissimo in termini di guida, performance elevate in pista grazie anche ad un completo rifacimento del telaio e nuovo forcellone con diversi leveraggi per il mono. Vi fu&nbsp;un incremento di peso (206 Kg), 6 kg in pi&ugrave; rispetto al precedente modello.  La R1 del 2009 era una moto decisamente riconoscibile: senza vederla arrivare si percepiva la sua presenza in relazione al caratteristico, inconfondibile, sound allo scarico dovuto alla particolare fasatura dell&#39;albero motore a croce (Crosso Plane).  Il suo project leader, Tojoshi Nishida, al periodo dichiarava: &ldquo;Se la prima versione puntava tutto sulle prestazioni assolute, nel corso degli anni gli utenti hanno iniziato a chiedere di sfruttare al meglio la potenza. Nelle competizioni i motori a scoppi regolari devono funzionare al meglio gli alti regimi, per un motore di serie il rendimento di deve ottimizzare su tutto l&#39;arco della erogazione&rdquo;.  Ricordiamo che il quattro cilindri Yamaha aveva intervalli di scoppio di ogni cilindro non pi&ugrave; a 180&deg; ma secondo un ordine di 270&deg;-180&deg;-90&deg;-180&deg; grazie ai quali si otteneva un&#39;erogazione e caratteristiche di coppia pi&ugrave; lineari nel funzionamento. Con questa nuova R1 i tecnici scelsero anche di introdurre il D-Mode grazie al quale era possibile scegliere tre differenti tipi di mappatura dell&#39;acceleratore a comando elettronico YCC-T. In abbinamento restava, come nella precedente versione, il sistema YCC-I (il comando elettronico dei condotti di aspirazione ad altezza variabile). Il nuovo motore ora segnava una potenza massima di 182 CV a 12.500 giri.  Rinnovato come detto il telaio Deltabox rivisto sia nel bilanciamento che nella rigidit&agrave;. Il motore tornava ad essere elemento stressato, montato di 9&deg; in pi&ugrave; in verticale, con il blocco cilindri ruotato in avanti di 31&deg; e il basamento era avanzato di 12 mm.  Una moto insomma tutta nuova sottolineata anche da un&#39;estetica rivoluzionata anche se da questo punto di vista non colp&igrave; particolarmente la fantasia degli appassionati in termini di linea, anche per (de)merito dei due voluminosi silenziatori sottosella. A livello di prestazioni il salto ci fu coniugando notevoli doti di ripresa ad una motricit&agrave; nettamente migliore rispetto alla R1 del 2008. Nel 2009 Iwata porta a casa il primo allora tra le derivate in SBK: con il pilota americano Ben Spies la Yamaha arriv&ograve; al trionfo dopo averlo sfiorato solo in passato con Haga e la YZF-R7 e Fabrizio Pirovano con la FZR OW-O1.    &nbsp;  Yamaha R1 2015: nel segno della MotoGP    Con la SBK in fase calante sotto le imprese di Valentino Rossi e Jorge Lorenzo in MotoGP, la R1 vede una nuova rivoluzione ad opera di Hideki Fujiwara e stavolta la musa ispiratrice sar&agrave; la M1 dei due piloti ufficiali. Le linee sono vicinissime a quelle della sorella prototipo e la tecnica compie un deciso balzo in avanti. Il quattro cilindri crossplane da 998 cc esprime pur sempre la bellezza di 200 CV a 13.500 giri, ma il vero asso nella manica della nuova R1 era (ed &egrave;) nella dotazione elettronica, controllata dalla Inertial Measurement Unit (IMU), e che comprendeva TCS (Traction Control System), SCS (controllo della derapata), LIF (controllo dell&rsquo;impennata), LCS (assistenza alla partenza), QSS (cambio elettronico) e naturalmente ABS. Tutto studiato e pensato per la pista, ormai unico terreno in grado di reggere la forza d&#39;urto di una supersportiva di 1000 cc.  Due le versioni per la nuova R1: ad un allestiemtno Standard viene affiancata la R1M, con dotazione di maggiore pregio: oltre ad una carena con parti in cabon-look e serbatoio in alluminio, troviamo sospensioni elettroniche &Ouml;hlins Electronic Racing Suspension (ERS), e la tecnologia Communication Control Unit (CCU): un&rsquo;interfaccia con funzione di data logging.    &nbsp;  La storia continua?    Nel 2019 venne presentata l&#39;ultima versione della R1, che &egrave; quella che oggi tutti vediamo in concessionaria. Le R1 e R1M 2020 vedono&nbsp; modifiche estetiche, con il design che non si discosta molto dalla progenitrice ma diviene pi&ugrave; aggressivo e efficace anche in termini di arodinamica. Ma non solo&hellip; il funzionamento del motore (con potenza che si attesta sempre a quota 200 CV) ad alti regimi ora &egrave; reso pi&ugrave; fluido ed efficiente alla risposta del gas, mentre il nuovo impianto di scarico a quattro catalizzatori permette di rientrare nei limiti della normativa Euro5.  Nessun stravolgimento comunque, ma tanti affinamenti per permettere a questa maxi sportiva di rimanere al passo con i tempi e di reggere il confronto con una concorrenza sempre pi&ugrave; agguerrita. Come sempre due le versioni presentate, la YZF-R1 standard e la pi&ugrave; esclusiva YZF-R1M. Inediti i condotti di aspirazioni (pi&ugrave; corti), e la distribuzione adotta nuovi bilancieri a dito. L&rsquo;elettronica sfrutta come in passato una piattaforma inerziale a sei assi e offre: 4 power mode, 10 livelli di traction control, 4 di slide control, 4 di antimpennata, 3 per il Quick Shift del cambio, nonch&egrave; il Launch Control. Con il turco&nbsp;Toprak Razgatlioglu la R1 M conquista nuovamente l&#39;alloro SBK, nel 2021. Per questa versione non mancano alcuni allestimenti speciali: come la GYTR, o la Petronas, versioni in serie limitata e destinate solo ad essere guidate in circuito.    La storia della R1 oggi sembra ad un bivio: il calo di interesse del mercato per le superposrtive (ormai fuori scala per molti per prezzo e prestazioni) porta sempe pi&ugrave; verso un utilizzo specialistico di queste moto. Arriver&agrave; una nuova R1 o ci si dovr&agrave; accontentare dei ricordi di una sigla storica che da 25 anni &egrave; protagonista dei sogni di tanti appassionati?   

Ad Eicma vennero tolti i veli ad una delle moto pi&ugrave; importanti di fine secolo che segn&ograve; una svolta per le sportive di serie. Ad oggi paga il declino delle race replica ma resta una sigla che ha fatto e fa man bassa di apprezzamenti

La Yamaha R1 compie 25 anni: nel 1997 c&#39;erano le sportive, ma arriv&ograve; lei...

Ad Eicma del 1997 vennero tolti i veli ad una delle moto pi&ugrave; importanti di fine secolo. Segn&ograve; una svolta tra le sportive, ad oggi paga il declino delle race replica ma resta una sigla che ha fatto e fa man bassa di apprezzamenti

Yamaha R1: 25 anni di storia

&quot;Agli italiani non piacciono le nude (quelle a due ruote), e ne hanno sempre comprato con moderazione&quot;. Iniziava cos&igrave; l&#39;articolo di InMoto del 1997 che presentava la novit&agrave; del Salone di Parigi, la Honda Hornet. Al tempo non potevamo sapere che questa moto avrebbe fatto esplodere il fenomeno delle naked in Italia, e avrebbe dominato le classifiche di vendita per lungo tempo. Oggi siamo qui a celebrare i 25 anni del modello, in attesa di vedere la nuova a Intermot, e facendo un tuffo nel passato attraverso tutte le versioni di questo mito giapponese... e anche un po&#39; Italiano.  Prima serie: la rivelazione    Inquadrare la Hornet nel periodo storico in cui fu presentata per la prima volta, ci d&agrave; un&#39;idea di che impatto ha avuto sul mercato e sugli appassionati. Nel 1998, primo anno di commercializzazione, l&#39;unica naked sul mercato che veramente poteva portare questo nome era la Ducati Monster. C&#39;era anche la Suzuki Bandit, ma pur essendo una naked aveva pi&ugrave; l&#39;immagine di una turistica scarenata, che davvero non si confaceva al nuovo &quot;fenomeno&quot; delle moto con motore da sportiva ed estetica nuda.&nbsp;  Da qui potete intuire quanto rivoluzionaria fosse, e quanto fossimo scettici all&#39;idea che questa soluzione potesse piacere agli italiani. In realt&agrave;, fin da subito, ci siamo innamorati di lei. Aveva il motore del CBR 600F, debitamente rivisto nella curva di coppia e nella potenza grazie a una nuova aspirazione e nuova fasatura. Il 4 in linea a carburatori della prima serie erogava 96 cavalli e la moto pesava appena 173kg a secco. Dati da sportiva, e anche il comportamento generale era quello di una moto che amava girare in alto. Il telaio doppio trave della CBR, per&ograve;, fu sostituito da un monotrave pi&ugrave; elastico e adatto alla strada, mentre la misura delle ruote fu ripresa dalla CBR 900 dell&#39;epoca, quindi con cerchio anteriore da 16&quot;, posteriore da 17&quot; e gommone da 180 dietro.&nbsp;  L&#39;estetica ha giovato parecchio di queste soluzioni tecniche. La moto era essenziale ma non povera, nuda ma non meno sportiva ed aggressiva di una vera racer. C&#39;&egrave; chi os&ograve; il termine &quot;streetfighter&quot;, che per fortuna non le venne affibbiato, ma l&#39;impressione era quella di una moto fatta per divorare la strada. Il nome &quot;calabrone&quot; le calzava a pennello. Lo scarico alto sul lato del codone la rendeva riconoscibilissima, perch&egrave; nessuno (al di fuori delle moto enduro) aveva mai usato una soluzione del genere. I &quot;tubi&quot; che uscivano dal radiatore e abbracciavano la fiancata sotto il serbatoio erano un altro elemento di forte identit&agrave; del modello.  Il successo fu fulminante. I primi due anni di vendite in Italia la videro subito protagonista, in cima alle classifiche per diversi mesi, fino al primo aggiornamento del 2000 con l&#39;introduzione della ruota anteriore da 17&quot; (quella da 16 era gi&agrave; superata, anche nella prima serie) e una mappatura centralina rinnovata che rinforzava la curva di coppia ai medi regimi. Le colorazioni furono aggiornate con l&#39;introduzione di un appariscente giallo e fu presentata anche una versione semicarenata S, con cupolino protettivo e un look un po&#39; pi&ugrave; serioso, che non ebbe particolarmente successo. La produzione per l&#39;Europa pass&ograve; interamente allo stabilimento italiano di Atessa, giusto per ribadire il gradimento del modello da parte dei nostri appassionati, che erano diventati riferimento continentale per le vendite.  &nbsp;  Seconda Serie: sotto il segno della continuit&agrave;    In Honda sono sempre stati cos&igrave;: se una cosa funziona, non c&#39;&egrave; alcun motivo di cambiarla radicalmente, e la formula Hornet fu confermata in toto anche per la seconda serie del 2003. La moto cambi&ograve; leggermente nello stile e il motore venne rivisto nelle finiture, nella batteria di carburatori e nell&#39;anticipo. Con l&#39;introduzione di questo aggiornamento, il codino si fece pi&ugrave; affilato e lo scarico venne rivisto per seguire la linea del posteriore, con l&#39;estremit&agrave; del terminale tagliata a fetta di salame. Nel frontale il faro &egrave; sempre tondo ma per la prima volta ha un andamento pi&ugrave; tridimensionale e le lenti interne di abbagliante/anabbagliante sono separate, garantendo un effetto molto pi&ugrave; moderno al primo sguardo.&nbsp;  Questo piccolo refresh ha dato la giusta energia al prodotto per continuare a performare in modo eccellente sul mercato ed essere ancora gradito dagli Italiani. La Hornet era diventata in pochissimo tempo la &quot;fidanzatina d&#39;Italia&quot; e il confronto con le altre Naked non era mai alla pari, perch&egrave; pareva avere sempre qualcosa in pi&ugrave; in termini di qualit&agrave; percepita e appeal su tutte le fasce d&#39;et&agrave;, dai giovani agli attempati. Nel 2004 l&#39;abbiamo messa a confronto in una sfida a tre fra l&#39;intramontabile Monster (in versione 800) e la Kawasaki Z750, ovvero l&#39;unica concorrente che ha saputo dare filo da torcere alla calabrona.&nbsp;Scrivevamo di lei: &quot;Anche per questa Hornet possiamo indicare nella facilit&agrave; di guida, nelle prestazioni e nella linea le sue armi migliori. Se a questo sommate anche un prezzo particolarmente competitivo di 7.430 Euro &egrave; facile capire come mai la Hornet piaccia a tantissimi motociclisti&quot;.  Un altro piccolo aggiornamento, nel 2005, ha portato a un aggiornamento estetico e tecnico dato dal piccolo cupolino che include la strumentazione analogico/digitale (al posto del classico doppio strumento a lancette) e una forcella di tipo upside-down. Nuove sono anche le colorazioni, che diventano cangianti e metallizzate, e la finitura di cerchi e di alcuni altri dettagli. Nella prova scrivevamo &quot;A sette anni dal debutto del &lsquo;98 &egrave; ancora lei la regina del mercato. I numeri parlano chiaro, e anche nel 2004 le Hornet vendute hanno quasi raggiunto quota 10.000. Queste cifre non creano dubbi in merito alle preferenze degli italiani e un distacco di oltre 3.000 pezzi sulla diretta inseguitrice (la Yamaha FZ6) ne &egrave; la conferma. Sar&agrave; che Hornet &egrave; ormai sinonimo di naked o forse che noi del Bel Paese subiamo il fascino di questo sapiente mix fatto della nota affidabilit&agrave; giapponese e dal &laquo;gusto&raquo; delle mani italiane capaci di quel tocco che fa la differenza. Sta di fatto che il gradino pi&ugrave; alto del podio rimane sotto le ruote del calabrone 600&quot;.  I carburatori, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato, sono stati confermati ed &egrave; l&#39;ultima naked del listino ad averli, rientrando con grande maestria nelle normative anti inquinamento dell&#39;epoca. Nella mega comparativa naked dello stesso anno (6 partecipanti) si &egrave; classificata seconda, a poca distanza dalla vincitrice Z750, ormai nuovo riferimento per potenza e rapporto qualit&agrave;/prezzo.    &nbsp;  Terza serie: ora &egrave; vera rivoluzione    Anno 2007, il mito Hornet cominciava a perdere colpi sotto i bombardamenti della Z750, che con il suo surplus di motore e potenza stava annientando la concorrenza. In Honda serviva un &quot;effetto shock&quot; che potesse ristabilire i valori in campo senza andare ad aumentare la cilindrata o cambiare direttamente il motore. Si scelse la via della rivoluzione estetica e arriv&ograve; qualcosa di decisamente inaspettato con la Hornet di nuova generazione: sparisce il faro tondo, via lo scarico alto e il codone sparato in aria.  L&#39;inversione di marcia ha portato un cupolino aerodinamico e filante sovrastato dal supporto strumentazione con effetto &quot;doppia bolla&quot;, il nuovo terminale &egrave; basso, corto e nascosto davanti alla ruota posteriore, mentre il codino finisce con un gradino che separa la sella dal supporto faro. L&#39;unica cosa che pu&ograve; ancora ricordare la Hornet &egrave; la parte centrale, con il mitico 4-in-linea (ora derivato dalla CBR 600 RR) e il serbatoio dalle linee inconfondibili. Anche il telaio &egrave; diverso nella forma e nelle quote, ma rispetta la geometria monotrave, mentre il propulsore guadagna finalmente l&#39;iniezione ed eroga 102CV e ora la moto pesa 5 kg in meno.  Tutti rimasero un po&#39; stupiti da questo cambio di rotta verso territori inesplorati. La risposta di Honda alla concorrenza &egrave; stata prendere una strada completamente diversa, fatta di linee al di fuori delle mode e della generale richiesta di sportivit&agrave; assoluta dell&#39;utenza. La nuova Hornet, anche grazie a combinazioni cromatiche particolari, aveva uno stile pi&ugrave; elegante e serio, con una linea di cintura quasi parallela al terreno e non pi&ugrave; aggressiva e spinta verso l&#39;anteriore. C&#39;&egrave; chi ha apprezzato questa rivoluzione e chi no, ma Honda aveva messo in conto i pareri contrastanti, sperando di fare bingo e invertire la rotta delle vendite di nuovo verso l&#39;alto grazie a un design tutto italiano.&nbsp;  Scrivevamo nel nostro test del 2007: &quot;Dopo nove anni di grandi successi internazionali, Honda e il designer italiano Cuccagna hanno voltato completamente pagina. Con la speranza di realizzare una seconda Hornet che sappia tenere cos&igrave; a lungo il mercato. Hanno scelto di avere coraggio e abbandonare tutti gli elementi distintivi del vecchio modello (che fu disegnato completamente in Giappone), aumentando un poco volumi e dimensioni per ospitare meglio le crescenti taglie europee. C&rsquo;&egrave; voluto tanto coraggio a eliminare anche codini e codoni, ormai troppo sfruttati, troppo deja-vu. Basta! Honda nelle competizioni lo ha ridotto ai minimi per la sua RCV 800, Cuccagna lo ha quasi eliminato, lasciando giusto un qualcosa per supportare fanale e portatarga.&quot; Purtroppo l&#39;azzardo non pag&ograve;, e anche se si trattava della migliore Hornet di sempre, non era pi&ugrave; la regina del mercato delle nude. Nel 2009 furono introdotte le sospensioni regolabili e nel 2011 arriv&ograve; un altro cambio di rotta.    &nbsp;  &nbsp;  Quarta serie: un passettino indietro    Mantenendo invariate ciclistica, serbatoio e meccanica, la Hornet 2011 decise di tornare sui suoi passi offrendo un&#39;estetica pi&ugrave; convenzionale e meno d&#39;impatto. Torn&ograve; un vero codino, che faceva il verso sia alla seconda serie e che alla coeva maxi-naked CB1000R (ammiraglia nuda del listino Honda), mentre davanti il cupolino dalle forme particolari lasci&ograve; il posto a un filante e aerodinamico faro dalla linea regolare. E&#39; vero, con queste soluzioni &egrave; un po&#39; pi&ugrave; banale e mostra meno carattere, ma &egrave; anche un po&#39; pi&ugrave; appetibile e rispetta il family feeling del periodo.&nbsp;  Il marchio Hornet non &egrave; pi&ugrave; sinonimo di successo, e le naked quadricilindriche stanno lentamente facendo passi indietro in termini di vendite. A dirla tutta, &egrave; il segmento della nude a subire vendite inferiori, a causa del fenomeno crescente e inarrestabile delle crossover, sempre pi&ugrave; amate e ormai entrate nei sogni proibiti anche dei giovani. La moto sportiva scarenata non &egrave; pi&ugrave; il fulcro su cui gira tutto il mercato, e questa versione della Hornet &egrave; l&#39;ultima prima del ritiro del modello dal mercato nel 2013.&nbsp;  Con il cambio di rotta del 2007 e con il sempre crescente disinteresse verso le moto pi&ugrave; sportive, anche la Hornet ha cambiato completamente faccia, diventando da aggressiva sportivetta stradale nuda a una moto da casa-lavoro-giretto con meno pruriti sportivi. A renderla pi&ugrave; &quot;blanda&quot; e meno appetibile non &egrave; stata solo l&#39;estetica degli ultimi modelli ma anche un cambio netto dell&#39;utenza che si &egrave; disinnamorata delle naked per voltare le attenzioni sulle moto con ruote da 19 e 21 davanti.&nbsp;  Marginale, ma non del tutto un insuccesso, la Hornet 900, modello derivato dalla CBR 900 che riprendeva l&#39;estetica della versione pi&ugrave; piccola, ma con doppio scarico alto al posteriore. Fu apprezzata al lancio grazie al nome - che era sulla bocca di tutti - ma non ebbe nessun aggiornamento e nessuna seconda serie. Quelle poche che si sono viste in giro, comunque, sono state amate dai proprietari per l&#39;equilibrio generale e per la corposit&agrave; del motore CBR, affidabile e instancabile anche sulle lunghe distanze.  Con l&#39;intermot 2022 il nome Hornet torna sulle carene di una Honda, e questa volta si tratta di un&#39;altra rivoluzione netta: bicilindrico parallelo di fascia media e una piattaforma condivisa non con una supersportiva, ma con modelli puramente stradali e on-off. Che sia la vera rinascita del nome o solo un&#39;operazione nostalgia non lo sapremo in tempi brevi, ma per quello che ha rappresentato per gli appassionati italiani merita senza dubbio un posto nel listino Honda.    Editoriale del Direttore: Akira e la moto del futuro  &nbsp; 

La storia della naked che per diversi anni &egrave; stata la &quot;fidanzatina d&#39;Italia&quot;, dalla prima e rivoluzionaria serie fino all&#39;ultima, che probabilmente scopriremo a Intermot

La Honda Hornet sta per tornare: la storia del calabrone giapponese

Con la seconda serie, Honda consolida la leadership di mercato fra le naked e consacra a mito assoluto questa 600, che al momento del restyling &egrave; all&#39;apice della sua carriera

Honda Hornet: la seconda serie

Con questa serie del 2007 &egrave; arrivata la rivoluzione. Perde aggressivit&agrave; e guadagna personalit&agrave;, ma non a tutti &egrave; andata gi&ugrave; l&#39;estetica di rottura di questo modello. Per la prima volta adotta il motore CBR 600 RR e arriva l&#39;iniezione elettronica.

Honda Hornet: la terza serie

Nel 1997 &egrave; stata presentata la naked sportiva di Honda che avrebbe fatto strage di cuori in Italia negli anni seguenti. Un&#39;icona che ha lanciato la moda delle naked e ne &egrave; stata la massima rappresentante.

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